Grazie per quel gol

Roberto Beccantini21 maggio 2024

Gli dobbiamo tanto. In Nazionale, Karl-Heinz Schnellinger ha segnato solo una volta. «Quella». Era il 17 giugno 1970, stadio Azteca di Città del Messico, semifinale Italia-Germania. Noi avanti con Boninsegna già all’8’; loro a morderci, a spingerci, a prenderci a pallate. Poi, al 90’, ci fu un cross dalla sinistra, il destino entrò in spaccata e pareggiò. Il destino si chiamava Schnellinger. Senza il suo gol, dalla grigia cronaca di un corto muso non avremmo mai stappato i supplementari del mito, la partita del secolo. Tutto d’un fiato: mullerburgnichrivamullerrivera. E sempre tutto d’un fiato: italiagermaniaquattroatre.

Ci ha lasciato ieri, Karl-Heinz. Viveva a Milano e aveva 85 anni. Biondo come la birra, duro come l’acciaio, leale, terzino sinistro e libero, uno di quei tedeschi che hanno fatto del bene al nostro Paese anche quando gli hanno fatto del male.

Colonia, Roma, Mantova, ancora Roma e Milan, su dritta di Gipo Viani, per chiudere a Berlino. Prese parte alla finale mondiale del 1966 a Wembley, Inghilterra-Germania 4-2 dts, passata alla storia per la rete-fantasma di Hurst. Con il Milan di Rocco conquistò 1 scudetto, 3 Coppe Italia (più 1 con la Roma), 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa dei Campioni (4-1 all’Ajax di Cruijff), 1 Intercontinentale, nella sanguinosa tonnara dell’Estudiantes.

Lo chiamavano Panzer, naturalmente, ma anche Volkswagen e, alcuni giornalisti, addirittura Carlo Martello, per come affondava il tackle. Fu moderno per i suoi tempi, calciatore e non calciattore. Si italianizzò e, orso qual era, andò in letargo. Si apriva con gli amici, rubinetto di aneddoti.

A ogni amarcord messicano, sorrideva: «Un colpo di fortuna. Era finita, avevate vinto e volevo solo correre negli spogliatoi». Il caso volle che. Evviva il caso. Ed evviva Karl-Heinz, compagno di un lungo viaggio e di una lunghissima notte.

Caro amico mi arrendo

Roberto Beccantini20 maggio 2024

Sul 3-0, con il Bologna dominante e Madama a reggergli lo strascico, avevo pensato a questo titolo: «Calafiori e calabrache». Per l’avvio ventre a terra del dottor Balanzone; per il gol del difensore e il raddoppio di Castro nel giro di 10’, suggellati, in avvio di ripresa, dallo scavetto di Riccardo cuor di leone, un terzino sparato al centro della difesa. E per il cosiddetto contesto: calcio contro calci; pressing contro cipria. Una sola squadra al comando e l’altra sazia (zona Champions, Coppa Italia), stordita, inguardabile.

Era la prima di un dopo. Da una parte, il celofuturista Thiago Motta, di trasloco (così dicono). Dall’altra, il celodurista Montero, di traghetto. Con Giuntoli e la sua Camelot, in tribuna, per nulla allegri. Ma allora perché 3-3?

Perché il calcio è pazzo, luogo comune (forse). Perché Thiago ha tolto i migliori (da Calaccetera a Freuler) e Paolo il caldo i peggiori (fra i quali Vlahovic, l’eroe dell’Olimpico). Perché la Dotta, priva di Ferguson e Zirkzee, non poteva immaginare che; e la Vecchia bene immaginava cosa. Fatto sta che, sotto la pioggia del Dall’Ara, Chiesa profittava di un errore di Lucumi – così come, in precedenza, i sodali del colombiano avevano banchettato sulle altrui licenze e indecenze – e infilava di sinistro; Milik segnava su punizione, complice la schiena di Fabbian; Yildiz, assatanato, stangava di destro. Il tutto, in otto minuti, dal 76’ all’84’. E ancora Chiesa, quasi quasi…

Note a margine: è tornato Fagioli, dopo i sette mesi di squalifica. Thiago e Montero si sono abbracciati a lungo. «Caro amico ti scrivo» a palla, la musica della Champions, i fuochi d’artificio, lo stadio discoteca e non più salotto, la gioia per una stagione indimenticabile. E una notte che si accomoda in archivio sull’onda di episodi ed emozioni che l’hanno stravolta. Caro amico mi arrendo.

Brutta fine, dopo tre anni di troppo

Roberto Beccantini17 maggio 2024

Ecco: la musica è finita, gli (ex) amici se ne vanno. «Il futuro non è un posto migliore, ma solo un posto diverso», ammonisce lo scrittore statunitense William Least Heat-Moon in «Strade blu». La frase sembra tagliata su misura per Massimiliano Allegri e la Juventus, ora che si sono sono separati dopo tre anni di troppo, in barba alla conquista della Coppa Italia e, soprattutto, alla scadenza del 2025.

Isterico, solitario y final. Lo spogliarello di mercoledì notte, con annesse accuse, allontanamenti e minacce in puro stile Padrino – nell’ordine: agli arbitri, a Cristiano Giuntoli, al direttore di «Tuttosport» Guido Vaciago – appartiene all’indecoroso repertorio degli allen-attori che pensano di averne subite troppe per non togliersi qualche sassolino (e magari, sullo slancio, qualche giacca). Mancano due giornate al termine, e gli obiettivi possibili – zona Champions, coppa – erano stati raggiunti. Dunque, non trovo poi così coraggioso l’esonero anticipato. Anche se ballano sette milioni netti, i dettagli legali non mi interessano; e sui comportamenti etici, per carità: nulla da eccepire, a patto che valgano sempre, e per tutti.

L’impresa del Feticista è stata di dividere il popolo gobbo: dalla filosofia del corto muso alla pagliacciata di Roma (e se l’avesse fatta Antonio Conte, paladino della juventinità?). L’errore, clamoroso e fatale, fu richiamarlo nell’estate del 2021. Lo commise Andrea Agnelli. Non era più il Gestore del Quinquennio. Era un benestante fermo da due stagioni, in ritardo sull’evoluzione asimmetrica del calcio, ma curiosamente nel mirino di Real e Inter. Perse subito Cristiano Ronaldo, e si perse. Quarto, terzo (sul campo, senza handicap), quarto. Più la Coppa Italia.
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