Dove starà Zaza

Roberto Beccantini9 settembre 2014

Non è il caso di scendere in piazza, o stappare champagne di nascosto. A Oslo, però, non si vinceva dal 1937, dai tempi di Meazza e Piola. Con l’Olanda la partita era durata dieci minuti. Con la Norvegia un’ora abbondante. I nordici sono crollati dopo il raddoppio di Bonucci, propiziato da un cross di Pasqual, appena entrato. Fortuna audaces iuvat: penso, anche, alla carambola sul sinistro spacca-equilibrio di Zaza.

Due a zero più due a zero: e questo, di Oslo, vale per gli Europei. Conte prende su e porta a casa. Lavori in corso, certo, e nulla di rivoluzionario sul piano del gioco: se mai, un calcio più verticale di quello caro a Prandelli. Però due cose: tra Bari e Oslo abbiamo concesso una sola palla-gol (a Van Persie) e mandato a rete tutti i reparti. L’attacco (Immobile, Zaza), il centrocampo (De Rossi, ancorché su rigore), la difesa (Bonucci).

Precipitati al 53° posto del ranking Fifa, i norvegesi non sono più i pivottoni d’antan. Non per niente, hanno perso undici delle ultime dodici gare. Ciò premesso, è stata un’Italia più di lotta che di governo, capace – e questo è un merito – di convivere con i propri limiti e di remare, tutta, nella stessa direzione: ai Mondiali, non sempre era successo.

L’intesa tra Immobile e Zaza cresce. Sono complementari, disturbano l’uscita dei difensori (anche se un po’ meno, questa volta), si cercano, sanno colpire. Zaza deve imparare a segnare i gol facili: é la banalità del «bene», a fissare il podio dei cannonieri. Conte, lui, deve aggiungere un tocco di fantasia alla manovra e lavorare sull’atteggiamento, ancora lontano dallo «sturm und drang» della sua prima Juventus.

Postilla. La Nazionale di Conte si è mangiata Olanda e Norvegia. L’Under di Di Biagio ha spolpato Serbia e Cipro, guadagnando i play off. Odo strani rumori attorno al carro «estinto». Vuoi vedere che il modellino italiano, sotto sotto…

Conte, dieci (minuti)

Roberto Beccantini4 settembre 2014

Lunga è la fila allo sportello del «si è vista la mano del tecnico». Che si possa dire di un’amichevole durata dieci minuti, mi sembra il massimo della piaggeria. La qual cosa non significa ridurre il debutto azzurro di Antonio Conte a un mero accidente. I gol non sono venuti per caso. Lancio di Bonucci, scatto di Immobile. Lancio di De Rossi, rigore su Zaza. Il rosso «tecnico» a Martins Indi ha chiuso ogni discorso, investigativo o celebrativo che fosse. L’Olanda di Sneijder e Van Persie non si è più rialzata, ammesso che ne avesse voglia.

I cinquantamila di Bari hanno ballato e cantato. Conte ha mascherato la Nazionale da Juventus, con Giaccherini preferito a Parolo, De Rossi alla Pirlo e il 3-5-2 di base pronto a diventare 3-3-4 in fase d’attacco. Che bravi Immobile e Zaza. La scatola batava è stata aperta con uno strumento che, in regime di possesso palla e calcio orizzontale, viene considerato un ripiego di basso artigianato: la palla lunga. Profumo di contropiede, da canestro a canestro. Poi, a turno, sono subentrati la ricerca del fraseggio, le volate di Darmian e De Sciglio, i blitz di Marchisio. Niente di che: il menu di Vinovo adeguato alle esigenze del San Nicola.

Infìda è la strada, e tra parentesi Robben non c’era. Tempo al tempo. Martedì, a Oslo, la Norvegia ci trasferirà, ufficialmente, in Europa. Non qualificarci sarà quasi impossibile. Conte, però, non bada alle etichette. Gli interessa la polpa. E’ un martello. Conosce gli italiani, la facilità con la quale salgono sul carro e l’indifferenza con cui lo abbandonano. I topi d’archivio informano che era dal 1998 che un ct non si aggiudicava la partita d’esordio. Wow. Tra mercoledì e giovedì, un mancino (Di Maria) ha polverizzato la Germania campione di tutto e la primissima Italia di Conte le ha suonate all’Olanda, terza al mondo. Un po’ troppo, per le mie certezze.

Gaetano

Roberto Beccantini3 settembre 2014

Gaetano. Gaetano Scirea. Oggi avrebbe 61 anni. Ne sono passati venticinque da quando non tornò dalla Polonia. Ci manca tanto, perché siamo cambiati troppo: noi, il mondo, il suo mondo. In questi casi, si rischia sempre di cadere nel patetico. Nel suo, sarebbe imperdonabile non correrlo, il rischio.

Raccontare ai giovani chi era e cosa ha rappresentato, è facile. Basta prendere i calciatori della generazione borotalco – non tutti, ma quasi – e liberarli dal grottesco ciarpame che li ha ridotti a guardie del corpo di se stessi.

Atalanta, Juventus, Nazionale: mai espulso, mai squalificato. E giocava battitore libero, mica all’attacco. Accennerei poi ai suoi silenzi e alla sua lealtà. La tv non aveva ancora invaso il calcio, d’accordo, ma già allora esistevano gli svitati e i teatranti. Solo che c’era spazio anche per gli Scirea.

Un modo, non una moda. Questo era Gaetano. La differenza non è nella vocale: è la vocazione. Testa alta, un naso che sarebbe piaciuto a Conte (Paolo), anche se non proprio triste come una salita, il gesto preferito al comizio. Era fatto così. Timido, riflessivo, non portato al pulpito. Un mito che, spente le luci, tornava un mite.

Non me lo vedo che twitta o selfieggia. Spesso, abbiamo considerato grigia la sua serietà, e banale la sua normalità. Passava per il simbolo del calcio difensivo. Affinché i ragazzi non ne restino traviati, riassumo l’azione che portò all’urlo di Tardelli nella finale del Bernabeu: Scirea recupera palla e avanza dai bordi della sua area. Passa a Conti, borseggiato da Rossi. Palla a Scirea, ancora in area, sì, ma quella tedesca. Di tacco a Bergomi, da Bergomi a Scirea, di tocco a Tardelli. Serve altro?

«You may say I’m a dreamer/But I’m not the only one»: e invece ho paura di sì, Gaetano. Eri solo. Eri libero.