Allegri, per forza

Roberto Beccantini16 luglio 2014

Mi piaceva il Massimiliano Allegri di Cagliari, capace di risorgere da cinque sconfitte. Un po’ meno, la versione milanista. Trovò Ibrahimovic e Pirlo, si tenne stretto il primo e lasciò andare il secondo. Posso perdonare la ghigliottina (fino a un certo punto, almeno), non però la nebbia sull’erede (Van Bommel, Ambrosini, De Jong, Montolivo?).

Nella scelta di Conte, il mercato non c’entra: sarà, ma non ci credo. Capisco lo stress che comporta sporgersi un po’ più in là del Bosforo: resto però dell’idea che con Cuadrado, Sanchez e magari Iturbe, passato alla Roma, Antonio avrebbe raccolto stimoli sufficienti per sfidarsi ancora.

Non resta che attendere. Che ne sarà di Pogba e Vidal: via entrambi o solo il cileno? Allegri prese in mano un Milan che era arrivato terzo. Galliani vi aggiunse Ibra e fu scudetto. Diverso il panorama della Juventus. C’è il nodo Pirlo, c’è il problema della pancia piena. Qui si parrà la nobilitate della società e del mister, il meno caro tra i papabili e più aziendalista di Antonio.

Il suo avvento mi ha riportato all’Ancelotti post Lippi: gli ultrà gli diedero del maiale. Ad Allegri, in conferenza, non sono state poste domande sul numero degli scudetti e sul gol di Muntari. Lo considero un passo avanti.

Va da sé che i cicli degli allenatori, al di là delle risorse disponibili, si sono drasticamente accorciati. Le dieci stagioni juventine del Trap e le dieci veronesi di Bagnoli fanno parte di un altro calcio. Prendete Mourinho: tre anni al Porto, tre e un pezzo al Chelsea, due all’Inter, tre al Real. E poi Guardiola: non più di quattro al Barcellona. Ancelotti, lui, due al Chelsea e due a Parigi dopo otto di Milan. Simeone è all’Atletico dal 2011, Klopp a Dortmund dal 2008, Wenger all’Arsenal addirittura dal 1996.

Il futuro è un posto diverso, non necessariamente migliore. Ma vale sempre la pena di esplorarlo.

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Minchia signor vincente

Roberto Beccantini16 luglio 2014

Ero in treno, ho pensato a Giorgio Faletti. Minchia, signor vincente. Le dimissioni di Antonio Conte al secondo giorno di (io mi) ritiro hanno spazzato via il modello tedesco e le favole di mercato. Non è da Juventus ripartire così, e nemmeno da Conte. Dilettanti allo sbaraglio. Dicono che sotto ci sarebbe la Nazionale. Può essere. Penso a Cesare Prandelli e alle sue smanie turche: la Juventus, adesso, sarebbe sua.

Sono andato a rileggere quello che scrissi il giorno in cui la società comunicò «Conte allenatore 2014-2015»: una non notizia, visto che si parlava di rispettare la scadenza naturale, e non già di prolungare il contratto. Sentivo puzza di bruciato.

Conte è stato il simbolo del Triplete juventino, checché ne scrivano coloro che sono già scesi dal carro o si apprestano a farlo al grido di «pezzo di m». E ve lo dice uno che considera gli allenatori importanti, sì, ma non troppo . Quali possono essere stati i motivi? Ci provo.

1) Antonio è terrorizzato dall’idea di perdere. Gli consiglio di leggere la poesia «If» (Se) di Kipling, quella sui due impostori, la vittoria e la sconfitta.

2) Sognava una campagna di rafforzamento ad altezza Champions: Cuadrado e Sanchez. Morale: Evra , Morata, forse Iturbe; e, probabilmente, Vidal al Manchester United. All’occorrenza, possiamo sempre prendercela con Marotta, ma ricordo che i capi sono Elkann e Agnelli.

3) Conte è un eccellente tecnico ma un pessimo oratore. Adora le intemerate di e alla Mourinho. Certe uscite – per esempio, quella sull’arbitro post Benfica – non erano piaciute ai padroni.

4) Siamo tutti uguali: dirigenti, allenatori, giornalisti, tifosi. In caso di secondo posto e di quarti/semifinali Champions avremmo parlato di stagione fallimentare. Qui ha ragione.

5) Con la Nazionale ricomincerebbe da zero, dopo che già si era parlato di un suo (folle) impiego part-time.

La Germania meno tedesca

Roberto Beccantini14 luglio 2014

Tutti sul carro, naturalmente. Tutti a copiare il modello tedesco. Chissà cosa avremmo scritto (e copiato) se Higuain, Messi e Palacio non avessero fallito gol facili facili e Sabella non avesse tolto Lavezzi, uno dei migliori, dopo il primo tempo. Il calcio è «anche» questo: Costa Rica, quattro Mondiali; Alfredo Di Stefano, zero.

Ma non è «solo» questo. E allora, complimenti alla Germania meno Germania della storia, così paradossalmente leggera, così raffinata e lontana dalla tirannia dei muscoli come la descrivevano i libri di scuola. Quando ero ragazzo, un tipo come Hulk sarebbe stato tedesco, oggi gioca nel Brasile. Bravo, Loew, a raccogliere quanto aveva seminato con Klinsmann.

E poi il bouquet di mezzali: Ozil, Kroos, Goetze, Schweinsteiger, Khedira. La notte del Maracanà non ha aggiunto nulla a Thomas Muller, e neppure a Leo Messi (anzi). La Germania è stata irresistibile solo con Portogallo (4-0) e Brasile (7-1). Tutte le altre pagnotte se le è sudate. Ha incarnato il meglio di un Mondiale mediocre. La sua manovra riassume il calcio verticale di Heynckes e il tiki taka di Guardiola. Una via di mezzo, ecco.

Sono sincero: non pensavo che si sarebbe arrampicata in cima al mondo. Il mio podio era Brasile, Argentina, Spagna, Germania. Gli argentini hanno giocato come giocavamo noi in passato. E anche per questo, hanno «rischiato» di vincere. Dagli ottavi in poi hanno preso solo un gol, ma ne hanno segnati la miseria di due. La Germania ha vinto all’attacco, come documentano le 18 reti in sette partite, e grazie alle risorse della panchina, Schurrle e Goetze su tutti. Oltre ai ritocchi volanti del ct (Lahm terzino, Schweinsteiger e Klose titolari, Muller punta esterna).

Per finire, Rizzoli. Bene fino al 90’, poi in apnea. Manca il secondo giallo ad Aguero. Buonista, come quasi tutti.

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