Scolari e maestri

Roberto Beccantini9 luglio 2014

Il mio pronostico era: Brasile 51% Germania 49%. Il risultato è stato: Brasile uno Germania sette. Paradossalmente, è proprio lo scarto a salvarmi. Che il Brasile perda una semifinale mondiale in casa per 7-1 capiterà una volta ogni cent’anni. Me la sono beccata io, amen.

Non facevo la Germania così forte, non facevo il Brasile così imbelle: elementare, Muller. Mancavano Thiago Silva e Neymar, d’accordo, ma c’è un limite a tutto. Credevo nel fattore campo – che non significa esclusivamente l’arbitro – nel binomio Nazione/Nazionale, nello spirito di reazione alle (presunte, molto presunte) ingiustizie. Avevo trascurato un segnale preciso: la traversa di Pinilla agli sgoccioli dell’ottavo con il Cile.

Non ho capito Scolari. Fa l’italianista persino contro il Camerun e poi, d’improvviso, sceglie uno come Bernard e si butta all’arrembaggio proprio contro i tedeschi. La squadra di Loew aveva sofferto l’Algeria fino ai supplementari, e la Francia fino alla fine. Sbloccato il risultato su azione di calcio d’angolo, con Muller, è andata via sull’onda, facendo scempio di avversari tatticamente ubriachi.

Alla resa dei conti, e ben oltre i calcoli della vigilia, la Germania esce fin troppo «grande», e proprio questo potrebbe frenarne l’ultimo balzo. La scuola tedesca ha cambiato passo, adottando il palleggio come unità di misura. In passato, uno con i muscoli alla Hulk sarebbe stato tedesco; oggi, viceversa, è brasiliano.

Bravo, Loew, a ritoccare l’assetto: Lahm da centrocampista a terzino, Schweinsteiger fisso, dentro Klose (16 gol mondiali, staccato Ronaldo). Resta quel po’ po’ di risultato: Brasile uno Germania sette. Se fossi un «prigioniero» del Maracanzo, mi precipiterei a chiedere i danni.

Giocare alla Di Stefano

Roberto Beccantini7 luglio 2014

Se n’è andato, a 88 anni, Alfredo Di Stefano. Prese il ruolo del centravanti, e lo moltiplicò. Era un altro calcio, d’accordo: più piccolo, più vago, forse più facile. Ma fu lui, soprattutto lui, a trasferirlo nella modernità, anticipando quel «totalitarismo» che poi gli olandesi avrebbero innalzato a eresia negli anni Settanta.

Pelé e Diego Maradona sono stati il massimo. Di Stefano è stato tutto. «Falso nueve», quando l’etichetta non era né una bava di etica né un segno su una valigia. Cannoniere. Mediano. Difensore. Di Stefano ha fatto la storia del Real Madrid e della Coppa dei Campioni, di cui divorò le prime cinque edizioni. Di Stefano, Puskas, Gento: musica, maestro. Francisco Gento teneva e arava la sinistra. Ferenc Puskas coltivava le zolle che poi si sarebbero aperte ai dribbling di Maradona e Messi. Don Alfredo copriva e scopriva gli spazi, direttore d’orchestra e umile orchestrale a seconda delle esigenze.

«Giocare alla Di Stefano»: ancora oggi si dice e si scrive così. Ognuno è figlio del suo tempo, e anche Di Stefano lo è stato. C’è però chi li impone, i tempi, e chi li subisce: la differenza è tutta qui. Di Stefano li ha anticipati, addirittura. E ci è riuscito nonostante una singolare e clamorosa latitanza: i Mondiali. Mai una fase finale, mai. Non gli è bastato giocare in due Nazionali (Argentina, Spagna) e sfiorarne una terza (Colombia). Il destino l’ha sempre aspettato al varco: o non c’era la squadra, o lui era infortunato, come in Cile nel 1962.

La fame sofferta da ragazzo l’aveva spinto a farsi cannibale in campo. Anche per questo, è diventato Di Stefano. Ne «Il più mancino dei tiri», Edmondo Berselli cita una frase di Adolfo Pedernera, suo maestro al River: «Ragazzo, di questo gioco campiamo tutti: vedi di darti una regolata». Per fortuna, non gli diede retta.

Il confine

Roberto Beccantini6 luglio 2014

Immagino che, per i cultori del pensiero unico, partite come Olanda-Costa Rica assomiglino al ruttino che scappa a tavola e sequestra per un attimo l’imbarazzo generale. Da una parte, gli inventori del calcio totale declassati a concessionari di un calcio quasi tappetaro, con tanto di difesa tre (ripeto: a tre). Dall’altra, la zucca che per farsi carrozza deve alzare trincee da piccolo mondo antico.

E chi se ne frega. A un lettore è venuta in mente Olanda-Italia di Amsterdam, semifinale degli Europei 2000: 0-0, espulso Zambrotta, ancora 0-0, rigori prima, rigori dopo, Toldo para-molto (se non proprio tutto), fino al cucchiaio di Totti. «Alla ricerca del calcio perduto» è un libro di interviste raccolte da Nicola Calzaretta. E’ Demetrio Albertini a tornare su quella omerica disfida. Cita la battuta di un compagno: «Li abbiamo rinchiusi nella nostra area di rigore e non li abbiamo fatti più uscire!».

Splendida: riassume la storia del calcio – o, almeno, di un certo calcio, né volgare né rozzo – e va oltre la cronaca della singola partita. Incarna la resistenza di Keilor Navas, il miglior portiere del Mondiale, e la mossa regina di Van Gaal, fuori il portiere da centoventi minuti e dentro, agli sgoccioli dei supplementari, il portiere da undici metri. L’avremmo sbranato, se non gli fosse andata come poi gli è andata: Krul due, Navas zero, Olanda in semifinale, Costa Rica a casa.

Si chiama favola, l’avventura di Costa Rica. Il suo catenaccio mi ha commosso. D’accordo, santo palo e santa traversa tifavano per coach Pinto e i suoi «Ticos», ma il calcio non morirà mai proprio per questo. Non basta chiamarsi Robben per vincere, né Gamboa per perdere. La democrazia degli episodi mescola le carte, tanto che per fare poker, a volte, bisogna ricorrere a un colpo di «c»: casualità, competenza, coerenza, coraggio. Ho dimenticato qualcosa?