Farina del suo Sacchi

Roberto Beccantini8 gennaio 2014

Interessante, il dibattito agitato dalle critiche di Arrigo Sacchi all’ultima Juventus, colpevole di aver battuto la Roma giocando all’italiana: «In Europa, le grandi squadre non aspettano, impongono il loro gioco». E giù una sfilza di nomi: l’Ajax del calcio totale, il suo Milan, il Barcellona di Guardiola, l’ultimo Bayern.

Non si può giudicare Sacchi dalla quantità. Si commetterebbe un grave errore. Certo, la nebbia di Belgrado. Certo, il braccio di Baresi: quando lo alzava in piazza Duomo, a Milano, era fuorigioco fino a piazza Navona, a Roma. Certo, Berlusconi e le sue truppe tele-cammellate. Arrigo, però, ha cambiato il calcio italiano: l’impatto, soprattutto. E’ stato scintilla, non fiammifero. Molti allenatori, Antonio Conte incluso, si rifanno al suo catechismo. Che, sia chiaro, non è assoluto: ed è stato traviato, addirittura, dai suoi seguaci, i boriosi «fusignanisti».

Visto da destra: ha vinto solo uno scudetto. Visto da sinistra: ha vinto due Coppe dei Campioni, due Supercoppe d’Europa, due Coppe Intercontinentali. Ognuno tira l’acqua al suo mulino. L’antipatia per Sacchi non può e non deve banalizzarne l’eresia del verbo. Eresia che predicò in tutta la sua profondità maniacale con il «primo» Milan, l’harem di Gullit, Van Basten e Rijkaard, Baresi, Maldini e Donadoni. Non in Nazionale. Non a Madrid (sponda Atletico) e tanto meno col Milan bis. Quel Milan lì, e non altri, prese il Real e lo appese al muro di un memorabile 5-0.

Si può sorridere del lessico siliconato che ne ha decorato l’epopea (per esempio: da contropiede a ripartenza); non si devono ignorare i cambi di regolamento. Resta l’idea, massiccia, di una manovra di possesso che stupì il mondo, abituato com’era a bollare the italians di eccesso di contropiede (sempre sia lodato), quando non di catenaccio. Prima Sacchi, poi Capello: a parti invertite, la storia del Milan – e del nostro calcio – sarebbe stata diversa.

All’italiana

Roberto Beccantini5 gennaio 2014

Non è stata brillante, la Juventus. E’ stata pratica. Non ha domato la trama, si è presa gli episodi. Per infliggere la prima sconfitta alla Roma, e spedirla a meno otto, ha dovuto sfoderare la decima vittoria consecutiva, impresa che non le riusciva dagli anni Trenta e dai tempi di Carcano, pace all’anima sua.

Conte ha vinto all’italiana: arretrando i reparti, aspettando gli avversari, con l’intento, manifesto, di tagliare lo spazio ai Gervinho e ai Ljajic. L’aiutino non gliel’ha dato Rizzoli (voto 7): corretta l’espulsione di De Rossi (piedi a martello su Chiellini), inevitabili il rigore e rosso per Castan, «portiere» di fortuna. L’aiutino gliel’ha dato Totti. Il capitano ha girato al largo, mai incisivo, mai decisivo. Di lui, propaganda a parte, ricordo un assist a Ljajic, in avvio, sventato in coppia da Buffon e Chiellini dopo un erroraccio di Bonucci.

Mancano venti partite e sessanta punti. Lo scudetto è tutt’altro che in ghiaccio. Ignoro cosa e quanto succhierà l’Europa League. Della Juventus ho apprezzato l’umiltà. Il gol che ha spaccato l’equilibrio – scarico di Tevez per Vidal – appartiene all’argenteria della casa.

Non aveva mai perso né beccato tre reti, la Roma (al massimo, due: con il Milan). Garcia ha pagato la serata troppo dolce di Totti, Pjanic, subito zoppo, Ljajic. La Juventus d’Italia resta un rullo. La Juventus d’Europa, un’altra cosa. L’arroganza ha portato al harakiri di Istanbul. In Champions, tanto per rendere l’idea del livello medio, i Drogba e gli Sneijder giocano nel Galatasaray, non nel Barcellona o nel Real.

Tre a zero alla seconda, tre a zero alla terza: detto che ritengo gli scarti obesi, le coincidenze cominciano a non essere casuali. Rientrava Pirlo. Vidal, Pogba e la difesa gli hanno reso lieve il rodaggio.

Eusebio, così poco portoghese

Roberto Beccantini5 gennaio 2014

Quando gli dei se ne vanno, il piacere di averne goduto i favori confligge con la malinconia del vuoto che lasciano. Eusebio è sempre stato la bilancia sulla quale abbiamo pesato il calcio portoghese: dal suo ritiro all’avvento di Cristiano Ronaldo. Ha avuto il gusto del ricamo e del dribbling, quel calcio, ma gli mancava sempre qualcuno, sempre qualcosa. Eusebio e il suo tiro.

Se n’è andato a 71 anni. Era mite, diventò un mito. Era la pantera del Mozambico, risposta afro alla perla nera del Brasile, Pelè. Nacque a Lourenço Marques e, pensate, sarebbe potuto diventare juventino. Lavorava colà Ugo Amoretti, un ex portiere che invano lo segnalò alla casa madre.

Eusebio da Silva Ferreira. Deve molto a Bela Guttmann, allenatore carismatico e creativo come pochi (dal 4-2-4 all’anatema anti Benfica: «dopo di me, il diluvio»). Fu lui a sdoganarlo. Insieme, consolidarono la grandezza del Benfica che aveva già vinto una Coppa dei Campioni e un’altra se l’aggiudicò proprio grazie ai morsi e ai graffi della pantera: contro il Real, ad Amsterdam. Anni Sessanta. Gli anni della dittatura latina: il Real di Di Stefano, Puskas e delle cinque coppe, quel Benfica lì, poi il Milan di Rocco e Viani, l’Inter di Herrera e Moratti. Undici successi consecutivi fino all’intrusione del Celtic.

Pallone d’oro, scarpa d’oro, capo-cannoniere, pile di scudetti: dietro al centravanti (Torres, Aguas), o al suo fianco, Eusebio seminava gli avversari con lo scatto, bruciante, e li fulminava con la «lecca», devastante: di destro o di sinistro. Ai Mondiali del 1966 trascinò il Portogallo a uno storico terzo posto dopo aver sbriciolato a suon di gol (quattro, addirittura) quella Corea del Nord che ci aveva ridicolizzato a Middlesbrough.

Coluna era la mente, Eusebio il braccio. «Dà a ogni giorno la possibilità di essere il migliore della tua vita», scriveva Mark Twain. Eusebio l’ha dato: a ogni giorno, a ogni partita.