Finalmente

Roberto Beccantini12 ottobre 2013

Lunedì 7 ottobre la chiusura dello stadio; venerdì 11 ottobre, la riapertura. Di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno. Questa volta mi tolgo il cappello e plaudo alla velocità della giusizia sportiva (che, quando vuole puntini puntini puntini). Di mezzo, non c’era mica il Milan di Silvio Berlusconi, «condannato» a vincere (da qualche parte, almeno). E neppure la Juventus del duro Andrea o l’Inter del puro Massimo.

Il caso coinvolgeva il piccolo Sassuolo, i cui tifosi fino a giugno cantavano in coro «Mai stati in A». E così, in alto i calici, Sassuolo-Udinese si giocherà con il pubblico. I mal-pensanti sono serviti: alludo a quelli che Figuriamoci, ci fosse stato Galliani allora sì, ma Squinzi, non vorrà mettere la Confindustria con la Lega di barboncino-Beretta… E sono serviti pure quelli che Vedrete se la Federazione farà un passo indietro. Peggio per voi, anime prave.

In fin dei conti, la discriminazione «territoriale» stava diventando un tormentone di facile spaccio e difficile lettura, come il trasferimento del colera napoletano da curva a curva. Gianpaolo Tosel se lo sentiva, e agli amici lo aveva detto. Carta canta(va). Credo che il nostro calcio avesse bisogno di una svolta del genere. Tra etica che non va prescrizione, prescrizione che non va in etica e codice etico, ci voleva un passo dalla parte di quella provincia popolare ma non populista che ha contribuito a decorare la storia sacrificando spesso la propria cronaca.

Immaginate cosa avrei scritto, e cosa avreste detto, se a trarne beneficio fosse stato, cito un nome a caso, il Milan. Non senza ragione, per carità, viste le orecchie degli ispettori federali, parte distratti e parte-nopei; e dati, soprattutto, i confini territoriali (e dai!) dell’oltraggio. Tutto si potrà dire di Abete, tranne che abbia parcheggiato, una tantum, la competenza.

Pugnetto duro

Roberto Beccantini8 ottobre 2013

Noi italiani siamo proprio speciali. Vorremmo occupare le piazze e fare la rivoluzione senza nemmeno sporcarci il colletto della camicia. La lotta al razzismo è dura, sporca, cattiva. Sull’onda emotiva del caso Boateng (Busto Arsizio, gennaio scorso) si è passati dalla tolleranza mille alla tolleranza sotto zero, da un eccesso all’altro: un classico.

L’indignazione di Adriano Galliani contro i cori di discriminazione territoriale che hanno fatto chiudere San Siro (contro i cori, non contro i coristi), riassume e incarna l’eterno conflitto tra regole ed eccezioni. Maurizio Beretta, presidente-barboncino della Lega, ha subito opposto un fiero e sedegnato «sì, cambiamo la norma». E’ stata l’Uefa di Michel Platini a indicare la strada, ne sa qualcosa la Lazio. Giancarlo Abete, scopertosi suo malgrado competente, non poteva che adeguarsi.

A parole, la bussola è il rispetto. Nei fatti, la bussola diventa il tifo. Un film già visto. Ripeto: se si vuole esterpirae un cancro diffuso come il razzismo e i suoi derivati («Vesuvio lavali col fuoco»), bisogna accettare anche qualche «vittima», devi mettere in conto anche qualche sentenza al limite.

«Se cinquanta (ultrà) si mettono d’accordo, uccidono il Milan», ha dichiarato Galliani, alludendo al potere di ricatto. Peccato che per anni siano stati i Milan e i club in generale a piegare quei poteri ai propri interessi di bottega, dentro e fuori campo. Una minoranza qua, una minoranza là: et voilà la maggioranza.

Non si può tornare indietro. Sarebbe peggio. Avanti col pugnetto duro, avanti con una polizia che becchi i facinorosi stadio per stadio (se sono solo cinquanta, che problema c’è?). Evviva i Giampaolo e tutti coloro che cacciano gli ultrà dagli spogliatoi.

Mi auguro che il nuovo confine non venga tracciato dall’udito dei dirigenti o dall’audio dei filmati. Fanno testo le orecchie degli ispettori federali. O sono «territoriali» anche quelle?

Montagne russe

Roberto Beccantini6 ottobre 2013

A Mexes era già andata bene la sera del gol di Muntari, quello «vero», quando rifilò un cazzotto a Borriello e nessuno fiatò. Questa volta, l’ha dato a Chiellini: era il 5’ della ripresa, sarebbe stato rigore più rosso. Ciò premesso, e dedicato alla setta dei complottisti un tanto a squadra, quando gli indizi si accumulano, prendersela con il destino e i loro sicari (da Nocerino, che svirgola il tiro, a Muntari che lo arpiona) sa troppo di fuga dalla realtà. Viceversa, la realtà è questa: fra coppe e campionato, la Juventus, non una squadra qualsiasi, è andata sotto sei volte su dieci. Ha sempre rimontato, vero, ma il carro attrezzi degli déi potrebbe scocciarsi.

Il Milan le rendeva Balotelli e molto altro (El Shaarawy, Kakà, De Sciglio, Pazzini, Birsa). Ha fatto la sua partita, molto «italiana». Conte ha vinto con i cambi: Pogba vice del vice Lichtsteiner (Padoin), Giovinco al posto di Quagliarella. I campioni avevano avuto una reazione furiosa, vecchio stile, per 10-15 minuti, fino alla punizione di Pirlo. Poi, tamburello bi-partisan e, in avvio di ripresa, quasi quasi più Milan che Juve.

Il gol di Giovinco è stato un lampo. La cacciata di Mexes, per somma, ha introdotto il gol della ditta Pirlo & Chiellini, punizione più destro radente. Di Robinho ricordo una palla-gol sventata da Buffon; di Matri, dura l’ex sed l’ex, l’assist al brasiliano, punto. Il Milan si è sgonfiato di brutto. Recuperato il centro del ring con la forza, ma non certo con il miglior Vidal, la Juventus è riuscita nell’impresa di distrarsi ancora. Come spiegare, altrimenti, la doppietta di Muntari, dopo venti secondi e a un paio di minuti dal 94’? Con Pirlo, Giovinco e Chiellini salgono a nove i cannonieri aziendali. Resta, però, il rumore dei «nemici». Non sono quelli che millanta Continho. Sono i cali di tensione, gli approcci blandi e, dal Galatasaray al Milan, i finali sconci.