Tu quoque, Gasp

Roberto Beccantini2 gennaio 2025

Non 4-0 come a San Siro, il 30 agosto, ma quasi (almeno per un’ora abbondante). Due a zero. Doppietta di Denzel Dumfries: al 49’ di rovesciata, in mischia; e al 61’ di piatto, dal limite. Una volta, tipi così li chiamavamo terzini; oggi sono i quinti. Migliore in campo, l’olandese. Peggiore, il Covercianese.

Era la prima semifinale di Supercoppa, in una Riad danarosa e svogliata. D’accordo, de «grandibus» non est disputandum, ma questa volta Gasp non l’ho proprio capito. Inzaghino ha schierato i migliori, lui no. E di fronte aveva una portaerei. E già gli mancavano i centravanti (Retegui, Scamacca). Un esame ai co-titolari (Zaniolo, un disastro; Samardzic, quasi)? Un calice di presunzione o un fiasco di rassegnazione? Boh. A tener su la Dea ci hanno pensato i voli di Carnesecchi e gli sgorbi balistici di Lautaro.

All’Inter non è parso vero. Subito aggressiva, subito armonica e ormonica. Gioca a memoria. Mescola i ruoli con le funzioni. Il ritmo era subdolo, aperto alle transizioni voraci dei Dimarco e dei Barella. Una sola occasione, l’Atalanta: quella, clamorosa, di Scalvini (sullo 0-0). Per la cronaca, Ederson, De Ketelaere e Lookman sono stati sguinzagliati al 59’, due minuti prima del raddoppio. Mentre Gasp riciclava i califfi, Inzaghino li toglieva, e così qualcosa succedeva: un gol di Ederson annullato per fuorigioco «moderno» del belga, una doppia parata di Sommer su Djimsiti e Lookman.

C’era gloria anche per Palestra, classe 2005, e c’era spazio, naturalmente, per i contropiedi dei campioni. Vicini al terzo gol, gli uni; vicini alla rete della staffa, gli avversari. Ma ormai si era ai titoli di coda.

Domani sera, seconda semifinale: Juventus-Milan. E stavolta il pareggio non basterà. Comunque.

Toscano e vulcano

Roberto Beccantini2 gennaio 2025

Rispondeva sempre, agli auguri di Natale. Questa volta no. E allora ho temuto che. Aldo Agroppi aveva 80 anni. Ci ha lasciato il 2 gennaio, lo stesso giorno in cui – nel 1960 a Tortona – spirò Fausto Coppi. Debuttò in serie A il 15 ottobre 1967, Toro-Sampdoria 4-2, la domenica della tragedia di Gigi Meroni. E dai granata se ne andò, spintovi da Gigi Radice, nell’estate del ‘75, proprio alla vigilia della stagione dello scudetto. Tu chiamalo, se vuoi, destino.

Toscano di Piombino, mare e navi, mediano di corsa e marcatura, 15 reti (tre pure nei derby), i baffetti a rendere british il piglio e il puntiglio. Aldo numero sei e Giorgio Ferrini, il capitano, numero otto. Quando il Toro era toro, sul serio.

Da ragazzo, sivoriano; poi ribelle e anti Juventus, anti palazzo, anti (quasi) tutto. Non ha mai perdonato a Marcello Lippi, toscano di Viareggio, la mancata confessione del gol che, in un Sampdoria-Toro 2-1 del 12 marzo 1972, l’arbitro, Enzo Berbaresco di Cormons, prima convalidò e poi annullò. Diluviava, il campo era butterato di fango e pozzanghere, non c’era il Var, la palla mi parve dentro, tutta, pur tra le ombre di una mischia così omerica. Classifica finale: Juventus 43, Milan e Toro, il Toro di Gustavo Giagnoni e il suo colbacco, 42.

Vinse 2 Coppe Italia, chiuse a Perugia, disputò 5 partite in Nazionale, fece l’allenatore – persino della Fiorentina – ma capì che non era il suo mestiere: Daniel Passarella lo salvò da una rissa accesa dai legionari di Giancarlo Antognoni. E una omessa denuncia, a Perugia, gli costò quattro mesi di squalifica nell’ambito del Totonero-bis.

Troppo sanguigno e troppo soggetto agli agguati della depressione, viveva il calcio da ultimo dei Mohicani. Ha scritto un libro «Non so parlare sotto voce»
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Se non basta il Grande Fratello

Roberto Beccantini29 dicembre 2024

E sono undici. Il 2-2 con la Viola non avvicina Madama ai quarti di nobiltà della zona Champions e la lancia, addirittura, verso il record dei pareggi (19, dell’Udinese 2023-2024). Eppure, al netto delle battute e degli episodi, delle macumbe e dei seminari, è stata una delle migliori Juventus della stagione. In vantaggio due volte con Khéphren Thuram, il Grande Fratello, e sempre rimontata, prima dal leonino Kean (dura l’ex sed l’ex, in onore di Gpo) e quindi dal volpino Sottil, all’87’, con un sinistro al tritolo dopo una scivolata di Cambiaso. Per carità, la storia ne è zeppa, di scivolate, ricordo quella di Gerrard in un Liverpool-Chelsea che costò il titolo ai Reds, ma per il giovanotto – già complice del gol di Rebic a Lecce – sono momenti un po’ così.

Se Palladino fatica a reggere quattro attaccanti, Thiago non ha più quel muro che, sino ai botti del 4-4 interista, sembrava impenetrabile. Prendete Kalulu: è un cerotto che copre molte cicatrici. Non tutte: Kean l’ha bruciato sull’1-1. Il torto della Juventus è stato di rannicchiarsi una volta spaccato l’equilibrio, e di non aver sfruttato le fasi di dominio che, imparata la lezione, ne avevano scolpito la ripresa, a cavallo di Thuram, Locatelli, «Flopmeiners» (finalmente) e Conceiçao.

E poi De Gea: su Vlahovic, a rischio polso, su Gatti, sul Portoghesino; per tacere di una lecca di Locatelli a fil di incrocio. Veniva da due sconfitte, la Fiore. Ha tirato poco, ha pagato il ventre molle della difesa, ma ci ha sempre creduto e, dalla riffa dei ruzzoloni, ha estratto il jolly. Brava lei. Polli gli avversari.

Il duello Vlahovic-Kean, per concludere. Ha ricevuto coracci, Dusan, e si è battuto. A modo suo: sparando a occhi chiusi, palla o aria. Moise: zero moine al gol (l’undicesimo) e, per questo, applausi. Il suo wrestling con Gatti è piaciuto a tutti, anche a Mariani.


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