Il Marco prima dell’euro

Roberto Beccantini31 ottobre 2024

Sessant’anni, oggi. Quando non c’era ancora l’euro ma c’era il Marco. Il centravanti non smette di agitare dibattiti, soprattutto adesso che persino Pep Guardiola, al Manchester City, ha tradito lo spazio per la ciccia di Erling Haaland. E’ un «mestiere» che ha adeguato le funzioni alla tempesta nozionistica del nuovo secolo, carnefice e vittima di lavagne legate alle mode e non solo ai modi (d’impiego). «Fragile» come il titolo della sua biografia, Marco Van Basten accompagnò il ruolo – pur sempre un ruolo di «caccia», misurato sul numero delle prede – a livelli di arte assoluta.

Lo fregarono le caviglie, martoriate da avversari senza scrupoli. Non lo salvarono i ferri dei chirurghi, da René Marti a Marc Martens, che si palleggiarono cartilagini, terapie e illusioni. Operato, ri-operato: un calvario. Si arrese, consegnandosi al destino, il 17 agosto 1995, ad appena 30 anni. La sera successiva si presentò a San Siro, dove Milan e Juventus si sarebbero contesi il trofeo Berlusconi. Ero là, in piccionaia, e al giro d’onore mi alzai in piedi. Il cigno di Utrecht, in jeans e giubbotto di renna, aveva il braccio pendulo, gli occhi mesti, il ciuffo a mezz’asta. Il popolo non sapeva cosa privilegiare: se i tamburi della venerazione o i violini della malinconia. Li alternò, commosso, ricavandone brividi di tormento.

Marco è stato un «nove» e un «dieci», tre volte Pallone d’oro, sbocciato nell’Ajax di Johan Cruijff e vincolato indissolubilmente al Milan di Arrigo Sacchi, il Milan dei tulipani: lui, Ruud Gullit e Frank Rijkaard. Nel calcio moderno è difficile indicare un erede che ne ricalchi lo stile: badano al sodo, vivono di gol (è buono e giusto), all’eleganza del rito preferiscono l’efficacia dell’attimo. Il più vicino è stato Zlatan Ibrahimovic, anche se con i suoi gusti esasperati, metà ballerino e metà gangster.
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Di corto muro

Roberto Beccantini30 ottobre 2024

Uscire dalle sbronze non è mai facile, specialmente se ti trascini e barcolli tra i lampioni del Parma. Il 2-2 dello Stadium, dopo il 4-4 di San Siro, fotografa la staffetta: dal corto muso di Allegri al corto muro di Thiago. Per farla breve: da Bremer-Kalulu a Danilo-Gatti. Già, perché Danilo e non l’ex Milan? Turnover, immagino. Occhio, però, a non esagerare: il capo tribù mancherà fino a maggio, se va bene.

Il Parma di Pecchia è la squadra più giovane della serie A. Due volte in vantaggio (subito con Bonny, di testa) e poi con Sohm, in capo a uno splendido ricamo. Coraggioso, al guinzaglio di un superbo Bernabé. E’ stato in partita sempre, e alla fine ha rischiato di vincere (con Charpentier, disarmato da Di Gregorio, e con Almqvist, un po’ narciso) non meno della Juventus (con le «parate» di Hainaut e Delprato a Suzuki sepolto).

Le reti americane di McKennie (di crapa, su cross di Weah) e, al 49’, dello stesso Weah (innescato da Conceiçao, stile derby d’Italia) avevano trasformato l’ordalia in una mandria di cavalli imbizzarriti. Poco Vlahovic (gol magnato compreso), e quell’Yildiz a rate non mi convince. Un sacco di errori, soprattutto in avvio, e una caterva di Mar Rossi aperti ai Mosè di turno, fossero Man, Bonny o Mihaila. Le bollicine del Portoghesino e gli spiccioli di Koopmeiners (al rientro) hanno cercato di ovviare a una lentezza che invano Cambiaso, con le sue scariche di trasformismo, cercava di mascherare.

Ogni palla persa, o raffinata dagli avversari, un contropiede da apriti Sesamo. Il centrocampo in balia di distanze abissali, nonostante lo stoicismo di Locatelli e Thuram (cresciuto); come se il palleggio del Parma fosse una lingua intraducibile. Imbattuta sì, la Juventus, e pure l’unica: ma sei pareggi in dieci gare. Narrano che «Padre tempo» sia uno specchiato galantuomo. E allora, halma.

Il Conte Max

Roberto Beccantini29 ottobre 2024

Lontano dal circo di Inter-Juventus 4-4, il Conte Max lascia il possesso a Fonseca e si prende il risultato, che non sarà tutto ma siamo lì: Milan-Napoli 0-2. E la capolista se ne va. C’era una volta Verona. Da quel giorno, il «primo», otto vittorie e un pari. E che non si sappia in giro: la miglior difesa (con Madama). Il Milan era spolpato, tra infortuni e squalifiche: persino Pulisic (sino, almeno, al 62’: quando, ormai, incombeva la sentenza). Si è notato. Al Napoli, mancava «Robotka»: si è notato di meno.

La partita. Dieci minuti made in City, Gilmour, McTominay e Di Lorenzo appendono il Diavolo al muro. E già al 5’, Lukaku: servito da Anguissa, spallata a Pavlovic (peso massimo contro peso massimo, alla vigilia – toh – dei 50 anni di Rumble in the jungle) e jab sinistro. Dopodiché: un passo indietro, tutti, in attesa degli eventi. Il Milan è un aeroporto senza torri di controllo, e con check-in troppo fragili (penso alla coppia Pavlovic-Thiaw). Si protende, attacca, crea vortici, da un paio di errori in uscita ricava golosi pertugi, ma Musah non ha il radar ai piedi.

Morata fa tutto, tranne quello che dovrebbe fare e che nessuno, al suo posto, riesce a fare: il centravanti. E così, naturalmente, raddoppia ‘o Napule: 43’, Kvara (fin lì «anche» terzino, come Politano) molla la fascia, si accentra e, di destro, infila un Maignan non più onnivolante. Georgia al governo.

Gioca, Okafor, come giocava l’ultimo e il penultimo Leao (che entrerà, pure lui, al 62’, materia per l’ennesimo dibattito sulla fuffa). Meret para quello che deve, un ginocchio di fuorigioco cancella, a Morata, il gol della scossa. Il Conte Max, da parte sua, toglie la «Lu-Kva», inserisce Mazzocchi, passa a cinque, sigilla ogni spiffero (fidatevi: il Buongiorno si vede anche dalla sera) e lavora di transizioni. Personalità e solidità. Daranno la colpa a Fonseca. Ci è abituato.