I centravanti

Roberto Beccantini24 agosto 2013

Campionato, finalmente. Il Milan ha giocato male e perso a Verona, la Juventus ha giocato di squadra e vinto a Marassi. Lasciatemi sciogliere una serenata al mestiere di centravanti. C’è quello di una volta, tutto spalle, stacchi e incornate. Luca Toni: a 36 anni suonati, ne ha rinverdito la saga, l’importanza. La «pollaggine» degli avversari, d’accordo: ma è lì che devi essere, se non vuoi che la storia si volti da un’altra parte.

Altro tipo, Tevez. Come Vucinic, considera l’area un dovere e non un piacere. Nella Juventus, poi, son proprio loro, i centravanti, ad aprire la porta ai Vidal di turno. Questa volta, Pogba l’ha aperta a Tevez. E visto che siamo in tema di «nove», occhio a Gabbiadini: ne incarna la versione moderna, come ha dimostrato in quel fior di tunnel al manesco Chiellini. Rimane Balotelli: rare briciole, lui che dovrebbe essere la torta. Al Bentegodi ha dimostrato di soffrire più gli applausi che i buuu, i quali, viceversa, lo stimolano. Giro l’idea ai tifosi non milanisti: ci pensino su.

Il Milan era andato in vantaggio con Poli. L’alibi del martedì olandese non regge. Bravo Allegri a infischiarsene. Il Verona di Mandorlini ha pagato, all’inizio, l’impatto. Piano piano, si è sciolto. Questione di gambe (Martinho, Jorginho) e di testa: Toni, appunto. La Sampdoria di Delio Rossi veniva da due successi su due, con i campioni. Non ha offerto le brecce che elargì la Lazio, in Supercoppa. Pogba si è ficcato nel labirinto, dove lo aspettavano Pirlo e Vidal. Ma che azione, l’azione del gol.

Lenta, pasticciona e monotona, la Juventus. Che però ha sempre governato l’ordalia e ribadito la sua diversità nella «fase di non possesso» (Dio mi perdoni). Di Conte, mi hanno sorpreso i cambi: due soli, ed entrambi al 92’. Per adesso, insomma, nulla di nuovo: sotto il sole o sotto la pioggia.

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Pericolosissima

Roberto Beccantini19 agosto 2013

Ecco quanto conta il calcio da ombrellone, con le sue sveltine da 45 minuti e le sue processioni ai rigori. Lazio zero, Juventus quattro. Per carità, neppure questo è oro che luccica, ma dal momento che in palio c’era la Supercoppa, e i duellanti hanno dato tutto quello che avevano in corpo, almeno un po’ sfavilla.

Le grandi squadre giocano con la testa, quando non hanno le gambe, proprio come ha fatto la Juventus di Conte. Il quale Conte d’ora in poi dovrà cancellare dalle pance dei suoi anche questa abbuffata. Non sia mai che i campioni si credano imbattibili. Dopo il 4-2 al Napoli, un agosto fa, ci riuscì.

Piccoli appunti di viaggio. Da una sciocchezza e un infortunio (di Marchisio) può nascere una mossa che sfigura la trama: Pogba. Come diceva quel tale, il destino mescola le carte e gli uomini, poi, ci giocano.

Tre gol su quattro sono arrivati da centrocampo e difesa: la solita Juventus, insomma, con gli attaccanti a tenere aperto il mar Rosso. A proposito: Vucinic e Tevez tendono a gironzolare ai bordi dell’area, cosa che spesso priva la manovra di un pivot vero. Anche questo, un film già visto.

L’importanza degli esterni. Lichtsteiner, per esempio: un gol e due assist. Ha preso Lulic e, con l’aiuto di Vidal, se l’è messo in tasca. Da 3-5-2 a 3-3-4: in Italia, funziona. In Europa, meno. Ecco la chiave della Juventus, nuova o diversa che voglia essere.

Che delusione, Petkovic. Mettilo prima, Floccari. Contro la Juventus, la Lazio è sempre lì, in attesa dell’attesa: di un miracolo di Marchetti, di un episodio. Male Hernanes, che soffre gli avversari di peso, rivedibile la formula dei tre registi (Hernanes, Ledesma, Biglia). Si è salvato Candreva.

Un passo avanti: la squadra sconfitta non ha disertato la premiazione. Un passo indietro: i buuuu razzisti ad Asamoah e Pogba.

Rivera e champagne

Roberto Beccantini16 agosto 2013

Gianni Rivera compie 70 anni il 18 agosto. Un lettore l’ha paragonato ad Andrea Pirlo. Come geometrie sì: penso al lancio, al dritto smarcante, «nello spazio». Ma Rivera è stato di più, molto di più: regista, rifinitore, stoccatore e nel 1973, addirittura, capo-cannoniere; 17 gol, con Paolino Pulici e Beppe Savoldi, quando le squadre erano sedici e le autoreti una tortura.

Della sua generazione è stato il più raffinato e il più grande. Il più forte no: il più forte, per me, rimane Gigi Riva. Rivera riassume molti tratti della stirpe italica.

Il talento precoce: debuttò in serie A, con l’Alessandria, a sedici anni non ancora compiuti. Poi solo Milan.

Il compromesso fisico: aveva spalle banali, torace modesto, diventò l’«abatino» di Gianni Brera. «Più artista che atleta».

Il compromesso storico: le celeberrime staffette «messicane», con Sandro Mazzola e per sei minuti, in finale, con Roberto Boninsegna. Un po’ al governo, un po’ all’opposizione.

L’attimo fuggente: il gol d’interno destro nei supplementari di Italia-Germania Ovest 4-3, ai Mondiali messicani. La partita che ci fece nazione e non più gregge. Una svolta, non una semplice volta.

Il politico. Da capitano e dirigente del Milan, contro gli arbitri. Da pattista e deputato dell’Ulivo, contro Berlusconi. Mondo X, padre Eligio: calcio come confine, non come prigione.

Un tocco in più. In tutti i sensi, anche letterario. E’ il titolo del libro scritto da (e con) Oreste del Buono. «Qualcosa che mai avevamo visto, né, temo, rivedremo», chiosò Gianni Clerici, paragonandone l’epifania agli strilli geniali di John McEnroe.

L’anticonformista. Madrid 1969, finale di Coppa dei Campioni: Milan-Ajax 4-1. Allenatore, Nereo Rocco. Linea d’attacco: Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera, Prati. E lo chiamavano catenaccio.