Da favorita, ma per k.o.

Roberto Beccantini5 maggio 2013

Il ventinovesimo scudetto della Juventus coinicide con il secondo consecutivo di Antonio Conte. Se il primo fu vinto in volata, sul Milan di Ibrahimovic, questo è stato stravinto per distacco. Ho azzeccato l’ordine d’arrivo (Juventus, Napoli), non le distanze. La Juventus è in testa dal 7 aprile 2012. Non è stata brillante e martellante come la scorsa stagione: è stata la più forte, stop. Chapeau ad Andrea Agnelli e al suo staff.

Su tutti e su tutto, Conte. Giocatore simbolo, Barzagli: quando arrivò, nel gennaio 2011, prendemmo in giro Marotta. I numeri non sono il vangelo ma aiutano a capire: miglior difesa (repetita iuvant), impennata di vittorie, crollo dei pareggi. E quattro sconfitte contro le zero di un anno fa. Sul piano tattico, il 3-5-2 ha scortato anche l’attuale safari. Modici i ritocchi: il 3-5-1-1, per issare a bordo il tritolo di Pogba (vergognoso lo sputo in risposta alla manata di Aronica) e, in casi d’emergenza, il 4-3-1-2 e il 4-3-3, modulo, quest’ultimo, che con Pepe «sano» avremmo visto più spesso. Credo che la prossima stagione coinvolgerà nuove sfide: questa rosa, per Conte, ha dato il massimo (concordo). Di qui la parabola dell’uomo Conte, juventino a vita, e del professionista Conte, juventino «se». Le pressioni saranno tremende. Urgono forze fresche, soprattutto sulle fasce e in attacco, là dove il via-vai potrebbe coinvolgere, addirittura, l’intero reparto.

Supercoppa di Lega, scudetto, semifinali di Coppa Italia, quarti di Champions: missione compiutissima, in rapporto alle risorse e alla concorrenza. Non è stato un campionato tecnicamente memorabile. I confini sono, da una parte, i sette giocatori forniti alla Nazionale vice campione d’Europa, segno di una buona qualità media e, dall’altra, i 18 e 30 punti inflitti al Milan azzerato e all’Inter decimata da Moratti e dagli infortuni. Altra cilindrata, la Juventus: ma Conte non vive tra le nuvole.

Mourinho: triste, solitario y (semi)final

Roberto Beccantini30 aprile 2013

Borussia, dunque. Senza se e senza ma. Fra andata e ritorno il Real si è aggiudicato soltanto i primi 15’ e gli ultimi 10’ della sfida al Bernabeu. In mezzo, tanto Borussia: dal poker & traversa di Robert Lewandowski al nitore delle geometrie. La Casa blanca insegue la «decima» del 2002, ma i soldi non sono tutto: e nemmeno Mourinho lo è. Lo avrà capito? Come immagino si sia capito quanto vale il Barcellona se Messi non gira o il Real, che pure ha una rosa più vasta, e l’ha dimostrato, se Cristiano Ronaldo balbetta.

Al leader massimo il madridismo chiedeva il trofeo massimo: la Champions. Tre semifinali, la prima persa col Barça (tra i por qué), la seconda ai rigori (col Bayern), la terza sul piano del gioco. Briciole, per il suo ego. Mou ha bisogno di nemici, se li è cercati anche all’interno (Jorge Valdano, Iker Casillas, Sergio Ramos); e in materia di «prostitute intellettuali», non frequento i viali spagnoli ma devo dedurre che, nel fissare gli aggettivi, ci sia stata più bagarre che in Italia. A José piace spaccare: seduce per quello che vince, non per come vince. Resta un grande: i tifosi di Porto, Chelsea e Inter non lo dimenticheranno mai.

A differenza della saga barcellonista, scandita spesso dagli allenatori, l’epopea del Real è storia, soprattutto, di giocatori: da Alfredo Di Stefano a Cristiano Ronaldo. Anche questo ha pesato sull’avventura del Vate. La partita è stata ribaltata da Benzema, escluso dalla formazione iniziale (ahi, ahi). I soldatini di Jurgen Klopp, giù il cappello, la stavano controllando agevolmente. Il raddoppio di Sergio Ramos ha collegato i fremiti notturni al romanzo del «miedo escenico». Troppo tardi.

Uomini di ferro su navi di legno hanno eliminato uomini di legno su navi di ferro. Sarebbe sbagliato crogiolarsi nella quasi rimonta dopo il quasi fiasco. In finale, a Wembley, giocherà il Borussia. La squadra migliore, non la squadra più forte.

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Bergonzi, sprint su Vidal e Marchisio

Roberto Beccantini28 aprile 2013

Nell’ordine: Bergonzi, Vidal, Marchisio. Il derby salta per aria nel finale, quando ormai il torello della Juventus si confondeva con il Toro. Netto, su Jonathas, il rigore di Bonucci: da rosso, fra parentesi. Sono tanti gli arbitri che «non se la sentono», non solo Guida. Avanti pure. Splendida la saetta del cileno; da lavagna, la punizione-sponda-schiacciata del raddoppio.

Manca un punto, adesso. E domenica la capolista affronterà il Palermo in casa. Settima vittoria consecutiva, nel frattempo. Il Toro non vince il derby dal 1995 e non segna da otto edizioni. Dal 4-2-4 di Ventura ha ricavato rare munzioni. A Glik e Birsa sono saltati i nervi, su Quagliarella e Peluso, ma Bergonzi ha cacciato soltanto il primo.

Meggiorini su Pirlo è stato un segnale; il 3-5-1-1 di Conte adeguato ai sentieri di Cerci e Santana, un messaggio. Mi hanno colpito Santana, per metà match, e Pogba. Pioggia battente e ritmi bassi, da fine stagione. Il centrocampo juventino si è annesso tutte le ultime cinque reti: quattro Vidal, una Marchisio. Era sempre stato il reparto cruciale, lo diventa a maggior ragione dopo il sacrificio di una punta.

Il Toro ha prodotto poco. Nel girone d’andata, era stata la difesa a tenerlo su. Oltre ai dribbling di Cerci. Quattro punte da supportare non sono poche: anche così, o soprattutto così, possono spiegarsi i quindici gol incassati in cinque gare, due da Bologna, Roma e Juventus, quattro dalla Fiorentina, cinque dal Napoli. La salvezza resta a portata di mano, ma non è ancora in tasca.

Che altro aggiungere, sulla Signora? Essere meno bulimica di un anno fa non significa aver perso l’appetito. In Italia, non ce n’è per nessuno. Altra musica, l’Europa. Credo che migliorarla tatticamente non sarà facile. Conte lo sa. Ecco perché invoca rinforzi. Almeno tre. Llorente non basta.