Cameriere, champagne (anche per l’arbitro, già che ci siamo). A 36 anni, Francesco Totti ha raggiunto Gunnar Nordahl. Il pupone come il pompierone: 225 gol in serie A. Tutti per la Roma, che è stata e rimane il suo amore, la sua forza, il suo limite. E’ stata una notte bella ma non facile, dal rigore-omaggio alla personalità del Genoa. La storia si porta via la cronaca. Resta, Francesco, l’ultimo dei numeri dieci di un calcio romantico e deportato, più completo di Roberto Baggio, Roberto Mancini, Gianfranco Zola e, noblesse oblige, Alessandro Del Piero.
Ha vinto poco, in rapporto alle risorse. Giampiero Boniperti e Giorgio Tosatti me l’hanno descritto come il giocatore più vicino al leggendario Valentino Mazzola, nel repertorio e come uomo squadra. Il fisico gli ha permesso di essere tutto, e di tutti: prima e seconda punta, rifinitore, mezz’ala. Pigro da legare, indisponente e geniale da impazzire. A Roma, per mezza Roma, Francesco incarna una sorta di religione, da opporre al culto nordista. Avesse scelto Madrid, Milano o la Juventus, a quest’ora parlerei di qualche gol in meno ma di molti trofei in più.
Evviva Totti e abbasso il tottismo, foriero, come tutti gli «ismi», di censurabile fanatismo. La carne è debole, e anche la sua lo è stata: sputo a Poulsen, pedata nel sedere a Balotelli, calcione a Pirlo. Davanti, non gli resta che Silvio Piola, irraggiungibile a quota 274: insieme, avrebbero formato una coppia straordinaria.
L’indotto, pittoresco e a volte grottesco, non mi interessa. Mi interessa Totti, gran cannoniere e gran passatore. Per Norman Mailer, il talento non è che «equilibrio sul bordo dell’impossibile». Ecco: sotto quell’aria da discolo pasoliniano, ribadita anche nel bisticcio con Kucka, Totti ha sempre frequentato il bordo facendo pubblicità all’impossibile.