Il caso Armstrong

Roberto Beccantini16 gennaio 2013

Un lettore mi sollecita un commento sul caso Armstrong. L’uomo che vinse il cancro e un «cancro» è diventato: per il ciclismo, per lo sport. Non sono un tuttologo. Non sono un moralista, o almeno spero. Mi chiedo, piuttosto, se certe cose avvengono perché si fustiga troppo o perché si fustiga troppo poco. Qualcuno mi sa rispondere?

I sette Tour strappati, letteralmente, cancellano ogni confine. Siamo al di là di tutti e di tutto. I silenzi, i depistaggi, le bugie, le indagini, la confessione fanno tanto «Delitto e castigo»: dentro di noi si agita sempre un lembo di Raskolnikov. La domanda resta immutata, nei secoli: perché? Tiro a indovinare: perché, forse, Lance si sentiva in credito con la vita e con la società (io so cosa significa lottare con un tumore, voi no; dunque, ho più diritti di voi). Perché, simbolo condiviso e riverito, era a conoscenza delle regole del branco, e delle sostanze che giravano e rendevano forti anche i meno forti di lui. Per cupidigia, per ingordigia, per leggerezza. Per complicità assortite, in alto e in basso, perché gli sport – quelli poveri ed eroici, soprattutto – hanno bisogno di principi azzurri e di favole da raccontare, con cui reggere la concorrenza, catturare spazio, sedurre sponsor, rastrellare denaro (anche per nobili fini).

Ci siamo cascati quasi tutti. Cosa avremmo pouto fare di più, e di meglio, noi giornalisti? Avremo avuto le nostre colpe, ma i controlli non spettavano a noi: se mai, il controllo. E come ammonisce il professor Alessandro Donati, il doping corre più veloce dell’anti-doping. Quello che mi stupisce, da non addetto al ciclismo, è la «realtà» di Armstrong: possibile che fosse così sicuro di restare coperto, impunito e invincibile? Siamo di fronte a un doping sistematico, di squadra, di cupola, non a casi sporardici; a un decennio, mica a un banale momento di debolezza (sic). Spero solo che si sia pentito.

Sgonfia

Roberto Beccantini13 gennaio 2013

Ventotto punti nelle prime dieci partite, solo diciassette nelle ultime dieci. Non ci voleva un genio per capire che prima o poi la Juventus sarebbe tornata sulla terra: io, però, non ricordo se l’avevo scritto. Era andata in vantaggio, di puro sedere, anche al Tardini: la squadra «pre» natalizia avrebbe tirato giù la cler, la squadra «post» si è lasciata rimorchiare e rimontare. Complimenti al Parma di Donadoni, sempre dentro l’ordalia: con la forza o per spirito di sacrificio. Ci sarà un motivo, se il Tardini resta l’unica rocca imbattuta.

Assenze, riserve non all’altezza, carichi di lavoro, supplementari di coppa: tutto fa brodo. La verità è una, una sola: la Juventus, «questa» Juventus, corre poco e pressa ancora meno. Vive degli strilli di Conte, si ciba di episodi, tutto il contrario della filosofia aziendale. Non morde (ah, Giovinco). E’ grigia, è magra: un pareggio in due gare.

Gran bel cavallone, Belfodil: ha 21 anni e, soprattutto, qualcosa che ricorda Benzema. E vi raccomando Sansone, scuola Bayern, già decisivo con l’Inter. Il suo ingresso è stato determinante, non meno di quello di Vucinic (penso al «velo» errato). Un altro gol preso in contropiede, come il primo di Icardi. Senza la necessità, in nessuno dei due casi, di sporgersi dal davanzale. Con la Samp, si fece bruciare Peluso; col Parma, Caceres. Par condicio. Aperta parentesi: che assist d’esterno, Paletta. Chiusa parentesi.

Il Parma avrebbe meritato la rete nella prima mezz’ora, la Juventus l’ha trovata su carambola e l’ha subìta quando sembrava in controllo. E così il tesoretto se n’è «ito». Da più otto a più tre sulla Lazio e più cinque sul Napoli (con l’asterisco Scommessopoli). Non v’è dubbio che la fase calda della Champions abbia inciso sulla marcia della capolista: il problema è che a febbraio tornerà (la Champions). Si ricomincia, in tutti i sensi.

Il buio oltre la quiete

Roberto Beccantini6 gennaio 2013

Troppo bella l’azione che aveva portato al rigore. Troppo comoda la pratica dopo l’espulsione di Berardi, già alla mezz’ora. Troppo forte la tentazione di dedicarsi al Milan di coppa. La Juventus ha cominciato a giocherellare, arrogante. Come in quel derby là, da 3-0 a 3-3. Sono state queste dimissioni di gruppo a spingere la partita, stra-segnata, verso il più clamoroso degli epiloghi. Tanto più clamoroso dal momento che, contro le squadre dall’ottavo posto in giù, la capolista aveva sempre vinto.

La Sampdoria ha fatto quello che avremmo fatto tutti: si è «messa lì», nella speranza che gli infissi tenessero e il ciclone passasse. E il ciclone – per la verità molto presuntuoso, molto molle – è passato. Bravo, Delio Rossi, a tenere comunque le due punte. Eder ha fornito le munizioni; Icardi, classe 1993, ha firmato la doppietta della svolta. Delio, quando allenava la Fiorentina, andò a battere il Milan a San Siro, era la vigilia di Pasqua e la storia della stagione cambiò.

C’era Conte, in panchina. Al netto degli episodi (possibile rigore su Matri, errori di Buffon, traversa di Vucinic), bisogna prendere atto del messaggio, non meno forte degli otto punti di distacco che avevano chiuso l’anno. Fin qui, solo le milanesi avevano battuto la Juventus. Questo ko, però, va al di là. Un disastro collettivo, il secondo tempo: da Buffon a Giovinco, passando per il debuttante Peluso. Cross alla memoria, palla masticata. La Samp, in dieci, sembrava in tredici. Ha avuto coraggio, e con lo spillo di Icardi ha forato il palloncino di Conte. Il quale Conte rischia di perdere anche Marchisio, infortunato a un ginocchio: era proprio il caso di tenerlo in campo sino alla fine?

Voce di popolo: la Juventus può solo perderlo, questo scudetto. Non vorrei che avesse cominciato.

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