Un lettore mi sollecita un commento sul caso Armstrong. L’uomo che vinse il cancro e un «cancro» è diventato: per il ciclismo, per lo sport. Non sono un tuttologo. Non sono un moralista, o almeno spero. Mi chiedo, piuttosto, se certe cose avvengono perché si fustiga troppo o perché si fustiga troppo poco. Qualcuno mi sa rispondere?
I sette Tour strappati, letteralmente, cancellano ogni confine. Siamo al di là di tutti e di tutto. I silenzi, i depistaggi, le bugie, le indagini, la confessione fanno tanto «Delitto e castigo»: dentro di noi si agita sempre un lembo di Raskolnikov. La domanda resta immutata, nei secoli: perché? Tiro a indovinare: perché, forse, Lance si sentiva in credito con la vita e con la società (io so cosa significa lottare con un tumore, voi no; dunque, ho più diritti di voi). Perché, simbolo condiviso e riverito, era a conoscenza delle regole del branco, e delle sostanze che giravano e rendevano forti anche i meno forti di lui. Per cupidigia, per ingordigia, per leggerezza. Per complicità assortite, in alto e in basso, perché gli sport – quelli poveri ed eroici, soprattutto – hanno bisogno di principi azzurri e di favole da raccontare, con cui reggere la concorrenza, catturare spazio, sedurre sponsor, rastrellare denaro (anche per nobili fini).
Ci siamo cascati quasi tutti. Cosa avremmo pouto fare di più, e di meglio, noi giornalisti? Avremo avuto le nostre colpe, ma i controlli non spettavano a noi: se mai, il controllo. E come ammonisce il professor Alessandro Donati, il doping corre più veloce dell’anti-doping. Quello che mi stupisce, da non addetto al ciclismo, è la «realtà » di Armstrong: possibile che fosse così sicuro di restare coperto, impunito e invincibile? Siamo di fronte a un doping sistematico, di squadra, di cupola, non a casi sporardici; a un decennio, mica a un banale momento di debolezza (sic). Spero solo che si sia pentito.