Sgonfia

Roberto Beccantini13 gennaio 2013

Ventotto punti nelle prime dieci partite, solo diciassette nelle ultime dieci. Non ci voleva un genio per capire che prima o poi la Juventus sarebbe tornata sulla terra: io, però, non ricordo se l’avevo scritto. Era andata in vantaggio, di puro sedere, anche al Tardini: la squadra «pre» natalizia avrebbe tirato giù la cler, la squadra «post» si è lasciata rimorchiare e rimontare. Complimenti al Parma di Donadoni, sempre dentro l’ordalia: con la forza o per spirito di sacrificio. Ci sarà un motivo, se il Tardini resta l’unica rocca imbattuta.

Assenze, riserve non all’altezza, carichi di lavoro, supplementari di coppa: tutto fa brodo. La verità è una, una sola: la Juventus, «questa» Juventus, corre poco e pressa ancora meno. Vive degli strilli di Conte, si ciba di episodi, tutto il contrario della filosofia aziendale. Non morde (ah, Giovinco). E’ grigia, è magra: un pareggio in due gare.

Gran bel cavallone, Belfodil: ha 21 anni e, soprattutto, qualcosa che ricorda Benzema. E vi raccomando Sansone, scuola Bayern, già decisivo con l’Inter. Il suo ingresso è stato determinante, non meno di quello di Vucinic (penso al «velo» errato). Un altro gol preso in contropiede, come il primo di Icardi. Senza la necessità, in nessuno dei due casi, di sporgersi dal davanzale. Con la Samp, si fece bruciare Peluso; col Parma, Caceres. Par condicio. Aperta parentesi: che assist d’esterno, Paletta. Chiusa parentesi.

Il Parma avrebbe meritato la rete nella prima mezz’ora, la Juventus l’ha trovata su carambola e l’ha subìta quando sembrava in controllo. E così il tesoretto se n’è «ito». Da più otto a più tre sulla Lazio e più cinque sul Napoli (con l’asterisco Scommessopoli). Non v’è dubbio che la fase calda della Champions abbia inciso sulla marcia della capolista: il problema è che a febbraio tornerà (la Champions). Si ricomincia, in tutti i sensi.

Il buio oltre la quiete

Roberto Beccantini6 gennaio 2013

Troppo bella l’azione che aveva portato al rigore. Troppo comoda la pratica dopo l’espulsione di Berardi, già alla mezz’ora. Troppo forte la tentazione di dedicarsi al Milan di coppa. La Juventus ha cominciato a giocherellare, arrogante. Come in quel derby là, da 3-0 a 3-3. Sono state queste dimissioni di gruppo a spingere la partita, stra-segnata, verso il più clamoroso degli epiloghi. Tanto più clamoroso dal momento che, contro le squadre dall’ottavo posto in giù, la capolista aveva sempre vinto.

La Sampdoria ha fatto quello che avremmo fatto tutti: si è «messa lì», nella speranza che gli infissi tenessero e il ciclone passasse. E il ciclone – per la verità molto presuntuoso, molto molle – è passato. Bravo, Delio Rossi, a tenere comunque le due punte. Eder ha fornito le munizioni; Icardi, classe 1993, ha firmato la doppietta della svolta. Delio, quando allenava la Fiorentina, andò a battere il Milan a San Siro, era la vigilia di Pasqua e la storia della stagione cambiò.

C’era Conte, in panchina. Al netto degli episodi (possibile rigore su Matri, errori di Buffon, traversa di Vucinic), bisogna prendere atto del messaggio, non meno forte degli otto punti di distacco che avevano chiuso l’anno. Fin qui, solo le milanesi avevano battuto la Juventus. Questo ko, però, va al di là. Un disastro collettivo, il secondo tempo: da Buffon a Giovinco, passando per il debuttante Peluso. Cross alla memoria, palla masticata. La Samp, in dieci, sembrava in tredici. Ha avuto coraggio, e con lo spillo di Icardi ha forato il palloncino di Conte. Il quale Conte rischia di perdere anche Marchisio, infortunato a un ginocchio: era proprio il caso di tenerlo in campo sino alla fine?

Voce di popolo: la Juventus può solo perderlo, questo scudetto. Non vorrei che avesse cominciato.

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Il dubbio

Roberto Beccantini4 gennaio 2013

Le prime volte meritano sempre rispetto. Soprattutto, quando c’è di mezzo il razzismo, cancro che in Italia continua a trovare facili spunti. La notizia della sospensione di Pro Patria-Milan ha fatto il giro del mondo. L’importante è che il segnale forte (partita spezzata per reiterati buuu a Boateng e c.) faccia aggio sulla circostanza debole (era un’amichevole). E ancora più importante sarà che, tra i segnali forti, la volontà di combattere il becerume hooligan (match fermato) prevalga sulla voluttà – del becerume hooligan – di tenere in ostaggio le maggioranze «per bene» (match fatto fermare).

Diranno i milanisti: non siete mai contenti. Hanno ragione. Al posto dell’arbitro (e di Allegri) avrei interrotto il gioco ai primi insulti contro Boateng ma poi, per rispetto del resto dello stadio, lo avrei ripreso. O almeno ci avrei provato. Me ne sarei andato solo di fronte a un’altra pioggia di cori. Il codice Fifa parla chiaro.

Sono anni che in Italia ci tramandiamo il dilemma: continuare o smettere, smettere o continuare. Dal caso Morosini al caso Busto: la differenza dell’argomento, profonda e lacerante, non si sottrare alla stessa «ratio». Come onorare un morto sul campo, fermandoci tutti per un giorno o fermandoci tutti per un minuto di «quel» giorno? Come reagire alle curve che brindano a Hitler e oltraggiano la pelle degli uomini, lasciandoli padroni del destino, come a Busto, o portandoli in galera, come in Inghilterra?

Bando alle chiacchiere. Meglio la cesura di un’amichevole che il nulla di sempre. Teniamoci il messaggio. Ai giovani, agli anziani, ai neutrali, ai politici, alle forze del calcio e della polizia. Attenzione, però: in un Paese normale, lo stop di Busto diventerebbe «legge» a tutti i livelli, dalla serie A agli oratori. Inclusa la pallonata giustificazionista di Boateng. Uhm. Dal momento che siamo in Italia, rimane il messaggio, duro, secco, ma anche il dubbio, ancora più secco.