La prima tripletta

Roberto Beccantini22 settembre 2012

La Juventus non batteva il Chievo da cinque partite. L’ha accerchiato, dominato e sconfitto al di là dello scarto, che senza i riflessi di Sorrentino avrebbe assunto dimensioni bibliche. Tanto per dire: tra Udinese-Genoa fuori e Chievo in casa, un anno fa i campioni avevano raccolto tre pareggi; e otto punti in tutto dopo quattro giornate.

L’aspettavo al varco, la Juventus. Era la prima tripletta del calendario: campionato-Champions-campionato, Genoa-Chelsea-Chievo. Missione compiuta. In attesa di Fiorentina e Roma, è ancora presto per misurare il distacco che la griglia estiva aveva tracciato. Il turnover, questa volta, ha coinvolto cinque elementi, tra i quali Pirlo e Vidal, entrato nella ripresa. E’ andata meglio, molto meglio che a Marassi. Diverso l’avversario, differente l’approccio.

Adesso che i campioni hanno un gioco, entrarvi e sintonizzarsi non è facile: penso a Pogba, timido in avvio e poi più sciolto, e soprattutto a Isla, reclutato per avvicendare Lichtsteiner. Ci sono stati momenti in cui, da registi, fungevano i difensori, Bonucci in testa: di fronte al catenaccio, ogni alluce giustifica il fine.
Conte e Carrera hanno ricavato un eccellente contributo da Giaccherini, troppo italiano per legittimare le serentate che, Romei esterofili, riserviamo alle Giuliette straniere. E poi Quagliarella, cioè l’attacco. Manca la punta da venti gol fissi, oh yes, ma in sei partite, coppe incluse, la squadra ha realizzato 17 gol. Gli ultimi tre, con Quagliarella. Ha strappato il posto a Giovinco, e le sue reti non sono mai banali.

Mi piace, della Juventus, la personalità europea che la spinge a non patteggiare con nessuno. Era il Chievo, d’accordo; e, allora, piedi a terra. Ogni partita fa storia a sé. Questa, per esempio, è stata senza storia. Punto, e a Firenze.

Con personalità

Roberto Beccantini19 settembre 2012

Non era facile rialzarsi dopo l’uno-due di Oscar. Ci voleva una squadra capace di essere superiore al proprio batticuore, ai propri limiti. La Juventus c’è riuscita. Partita equilibrata e piena di cose, risultato corretto. Il Chelsea ha fatto il Chelsea, nel bene e nel male. Aveva la partita in pugno, Di Matteo dirà che gli è scivolata di mano, Conte e Carrera che gliel’hanno strappata. Facciamo una via di mezzo, ok?

Al ritorno in Champions dopo quasi tre anni, un po’ di tremarella nell’occupare il campo, e poi via: pane al pane. Un’altra rimonta, come a Marassi. Questa, addirittura, contro i detentori. Avrebbe dovuto giocare Mata: Di Matteo gli ha preferito Oscar, complimenti. La doppietta e l’eclisse di Pirlo, marcato a uomo, come insegnavano i maestri di provincia. Pirlo, già. Per lunghi tratti, la Juventus ha giocato in nove: senza il suo radar, oscurato; e senza Giovinco, uno stecchino divorato dai Terry di turno. Non a caso, è stato proprio il suo sostituto, Quagliarella, a segnare la svolta (pareggio, traversa scheggiata).

Un monumento lo merita Vidal, zoppo ma irriducibile: sua la rete della riscossa. Sarà stato un caso, ma quando i blues hanno sbloccato il risultato, Vidal era fuori, a farsi curare. Morale: un’alternativa a Giovinco, c’è; a Pirlo, dipende. Devono trovarla i compagni, penso al lancio di Marchisio per Quagliarella.

Il passaggio dal campionato, dove la Juventus siede a capotavola, all’Europa, dove ha appena ritrovato il posto, è stato mascherato dalla personalità, sempre: anche nei momenti più scabrosi. Molti errori sotto porta (Marchisio, Vucinic), spinta di Lichtsteiner e Asamoah ridotta o comunque frenata. Mi aspettavo di più da Vucinic e da Hazard. Resta l’assenza di un Trezeguet, discorso che vale anche per il Chelsea (da Drogba a Torres). Aveva promesso emozioni, la prima Juventus d’Europa. E’ stata di parola.

Proprio un povero Diavolo

Roberto Beccantini18 settembre 2012

Campionato o Champions, è proprio un povero Diavolo. Non più grande come nei comizi di Berlusconi, e non ancora così provinciale come, a volte, servirebbe. Una pericolosa via di mezzo. L’Anderlecht ha portato via da San Siro un pareggio che non si presta a reclami faziosi. E così il Milan, come l’Inter, continua a non vincere in casa. Sampdoria e Atalanta durarono novanta minuti; la squadra belga, quarantacinque: merito del Milan, sì, ma non solo.

Allegri plaude alla «verginità» della difesa. Contento lui. Ignoro quanto potranno dargli Montolivo, Robinho e Pato (Pato?): non sono rotelle periferiche, non sono fenomeni. Il Milan è questo: in assenza di un regista, o di un plausibile surrogato, il gioco nasce per episodi e non da idee. Inoltre, un centravanti come Pazzini giustificherebbe più cross: nella ripresa, per esempio, qualcosa si è mosso. Qualcosa e qualcuno (El Shaarawy).

Meglio adesso, i problemi, che più avanti. Oh yes. Questi, però, sono limiti strutturali, legati più alla qualità dei dipendenti che al sistema di gioco. Un nome: Boateng. Scomparso, letteralmente. Nella mia griglia, il Milan figura al quinto posto, dietro Juventus, Napoli, Inter e Roma. Oggi, non è da scudetto: potrà diventarlo, come la Juve un anno fa, ma al posto di Galliani sarei stato più chiaro e meno ambiguo. Il popolo mica è fesso.

Ricapitolando: 0-1 Sampdoria, 3-1 a Bologna, 0-1 Atalanta, 0-0 Anderlecht. E’ il ruolino di marcia di una squadra qualunque. Per la cronaca, e per la storia, è stata azzerata la rosa prima e seconda nelle ultime due stagioni. A far gol pensava Ibrahimovic; a non prenderli, Thiago Silva. E poi Nesta, Zambrotta, Cassano, Seedorf, Gattuso, Van Bommel, Inzaghi. Una Spoon River che prima o poi dovremo smettere di recitare, per il bene dello stesso Milan. Che sa di non essere più «quello», ma non sa ancora cosa sarà.