I ritornisti

Roberto Beccantini16 luglio 2012

Silvio Berlusconi torna in lizza a 75 anni, e con lui torna «Forza Italia», il vecchio partito che licenzia il nuovo («Popolo della Libertà»). Siamo la palestra del Ritornismo. Anche all’estero, quando la squadra vacilla, cambiano allenatore, ma noi non ci limitiamo a un esercizio così banale: sempre più spesso, cambiamo il sostituto con il sostituito. Dopo gli Europei del 2008, riportammo alla guida della Nazionale Marcello Lippi, il ct che aveva condotto gli azzurri al titolo mondiale del 2006 (e poi si era dimesso). Fu un disastro.

A Roma e alla Roma, già allenata nel biennio 1997-1999, è tornato Zdenek Zeman, 65 anni suonati. A Roma e alla Roma, già servita ai tempi della famiglia Sensi, era tornato pure Franco Baldini. Naturalmente, sono tornati anche i soliti argomenti anti Moggi e anti Juventus, ricambiatissimi, e sono spuntate magliette che il fustigatore boemo avrebbe fatto meglio a non firmare: l’odio gonfia i muscoli della violenza.

Siamo un popolo di ritornisti, con una visione del futuro prossima allo zero. Il santo protettore è Franco Carraro: tutta una vita a saltare da una poltrona all’altra, come Tarzan. Presidente del Coni dal 29 gennaio 1999, Giovanni Petrucci ha già collezionato quattro mandati, cioè tre «ritorni». E Antonio Matarrese? L’8 agosto 2006 venne eletto presidente della Lega di serie A e B a distanza di 19 anni dall’ultima volta: sostituì Adriano Galliani, dimissionato per forza e non certo dimissionario per pudore.

In passato, Arrigo Sacchi e Fabio Capello erano tornati al Milan, Giovanni Trapattoni alla Juventus: tornarono loro, non le magie che avevano sprigionato. Ebbe più fortuna, viceversa, la Juventus della Triade con il Lippi bis. Siamo paurosi dentro e vecchi fuori: per questo, l’idea Stramaccioni – tecnico dell’Inter a 36 anni – mi sembra di un altro mondo.

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Trenta: e se ne parla ancora

Roberto Beccantini9 luglio 2012

Sono passati trent’anni. Undici luglio 1982: il Mondiale del nostro «contento». Cade, il compleanno, dieci giorni dopo il secondo posto agli Europei. Dalla Spagna nutrice alla Spagna carnefice. Ero là, inviato de «La Gazzetta dello Sport». Marcavo gli avversari: la Polonia di Boniek, il Perù di Uribe e il viscido Camerun che, secondo l’inchiesta di Oliviero Beha e Roberto Chiodi, si sarebbe venduto il pareggio contro di noi.

Tra le nuvole, a ogni anniversario, Enzo Bearzot e Gaetano Scirea sorridono al «Non ci prendono più» di Sandro Pertini, mentre Nando Martellini ripete, a gentile richiesta: campioni del Mondo, campioni del Mondo, campioni del Mondo. Avevano le palle, non erano santi o eroi: Paolo Rossi veniva da una lunga squalifica (totonero). Diventarono un urlo (Marco Tardelli) e una squadra. La migliore. La tripletta che Paolorossi, tutto attaccato, rifilò al Brasile ha segnato il mondo, mica solo «quel» mondiale. Non c’è più il Sarrià di Barcellona, e nemmeno l’Italia da bere che fece da sfondo all’avventura; se n’è andato pure Giovanni Spadolini, il primo presidente del Consiglio non democristiano. Le frontiere erano state riaperte da un paio d’anni, la scritta Sanson (gelati) sulla maglia dell’Udinese sembrava una bestemmia.

Due le eredità fra le tante: il silenzio stampa (visto che ci portò fortuna) e l’attesa del campione oltre ogni ragionevole dubbio (Pablito, sopportato per quattro partite ed esploso alla quinta). E poi il gioco: non così brillante come in Argentina, ma sempre efficace. Avete presente il catenaccio? Tutto il contrario. Se Bruno Conti fu la fantasia e il blocco della Juventus la spina dorsale, Beppe Bergomi titolare a 18 anni conferma che era proprio un’altra Italia.

Stadio Santiago Bernabeu di Madrid, 11 luglio 1982: Italia batte Germania Ovest tre a uno. Voi dov’eravate?

Né marziani né pippe

Roberto Beccantini1 luglio 2012

Quando i migliori stravincono, ci si alza in piedi e si applaude. Spagna quattro, Italia zero: il risultato traccia i confini di una finale durata si è no una quarantina di minuti. Troppo poco per non parlare di lezione mortificante. Complimenti a Del Bosque: il suo «cinque fuori» (in gergo cestistico, giocare senza pivot) si è rivelato tutt’altro che sterile, come documentano i gol e, soprattutto, le azioni che li hanno introdotti. Rispetto all’1-1 di Danzica, l’Italia era cresciuta (nessun dubbio, pensando a come aveva cucinato inglesi prima e tedeschi poi), ma le furie hanno studiato di più. Morale: ci hanno letteralmente massacrato.

Ho visto un’Italia vuota, scarica, un blocco Juve in balìa perenne degli avversari, da Pirlo a Marchisio a Chiellini, il più in crisi (anche perché subito infortunato). Non escludo che quegli stessi trombettieri che straparlavano di Pirlo pallone d’oro declassino l’ItalJuve a combriccola di pippe. Il torello iberico ha disarmato Balotelli e ridotto i nostri resti (in dieci, per giunta) a patetiche comparse. Non può essere un caso se, al di là del numero degli attaccanti schierati e degli sbadigli ogni tanto provocati, la Spagna abbia realizzato una tripletta storica: Europeo 2008, Mondiale 2010, Europeo 2012. Due ct (Luis Aragones, poi Vicente Del Bosque), il modello Barcellona (Xavi, Iniesta, Fabregas), i fusti del Real (Casillas, Sergio Ramos, Xabi Alonso) e cani sciolti come Jordi Alba e David Silva: un raccolto non meno straordinario della semina. Cameriere, champagne.

Cesare Prandelli ha portato l’Italia al di là dei pronostici. Gliene sarò sempre grato. Viceversa, non si può dire che il blitz di Mario Monti abbia portato fortuna. In un Paese per il quale l’unica cosa che conta è vincere, non importa come, dubito che questo secondo posto resisterà ai colpi di spugna della memoria e dell’attualità. Da Kiev a Scommessopoli, buon divertimento.

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