Van persi

Roberto Beccantini27 maggio 2012

Il tridente Palacio-Milito-Lavezzi non mi dispiace, così come le casse piangenti del Milan potrebbero trovare un bel fazzoletto nei recuperi di Cassano e Pato al servizio di Ibrahimovic. Il quale ha giurato eterno amore a Galliani, pur in assenza di rinforzi all’altezza dei suoi appetiti (e dei suoi, umanissimi, sbadigli). I problemi di Milan e Inter cominciano dalla metà campo in giù: Montolivo è un giovanotto che, spesso, perde le chiavi di sé, finendo per essere «altro» alla mezz’ala che il versatile repertorio aveva indicato prima a Bergamo e poi a Firenze.

Come la parola “progetto”, top player è termine inflazionato e, dunque, fastidioso. La Juventus lo insegue in attacco, là dove il cannoniere più prolifico, Matri, si è fermato a dieci gol. Il gioco di Conte ha sin qua previsto il ricorso a un pick and roll di impronta cestistica, con il lungo (la punta) abile nel favorire l’entrata della guardia (il centrocampista). Dal momento che gli avversari ne avranno studiato gli schemi, urge una rinfrescata.

Quale attaccante, allora. Qui si parrà la nobilitate di Marotta. Destro è completo ma giovane (all’estero direbbero: è completo «e» giovane); Dzeko è riserva del Manchester City e viene da quella Germania virtuosa nei bilanci ma ruffiana nella propaganda (Diego); Suarez sa cavarsela con il pivot (Carroll, Liverpool) e senza; Higuain ha scoperto il gol, ma tra Cristiano Ronaldo, Di Maria, Ozil, Benzema, Kakà certe scoperte riescono meglio; Van Persie, nell’Arsenal targato Wenger, ha dimostrato di prediligere il 4-2-3-1, nel solco di Henry. E così, all’imbarazzo della scelta si affianca l’imbarazzo, forte, di pagare cara la scelta sbagliata. Nessun fuoriclasse all’orizzonte; giocatori più in gamba, almeno sulla carta, sì. Da Van Persie a van persi (i quattrini, i candidati) c’è però un crepaccio. Occhio a non finirci dentro. Non sarebbe una novità.

Odio il mercato

Roberto Beccantini23 maggio 2012

Odio il mercato e, dunque, mi porto avanti con gli alibi con i quali giustificherò tutte le analisi che vorreste e non avrete. Lo odio da quando, ragazzo a Bologna, mi ero invaghito di Amarildo, riserva di Pelè e protagonista del Mondiale brasiliano in Cile. Lessi che sarebbe andato alla Juventus. Ne ero felicissimo. Conservo le pagine, i titoli, con tanto di verbi al futuro e zero condizionali. Passò un anno e Amarildo finì al Milan. Probabilmente, avrei dovuto cominciare a detestare i giornalisti e continuare ad amare il mercato. Sbagliai strada. Meglio così: se avessi scelto quella giusta, non ci saremmo conosciuti.

Ci sono cose peggiori, certo. Il mercato piace in quanto sogno, segno, oppio e adrenalina del popolo. Lo cucinano i giornalisti e i procuratori, tra molto fumo e qualche arrosto (prima poi, me la dovevo giocare…). Per carità: ogni tanto l’eresia e l’utopia diventano realtà – esempio: Zico all’Udinese – ma il rapporto resta molto basso, molto liquido.

Non mancano gli svaghi: la scorsa estate, Gasperini chiese Palacio a Moratti e non lo ebbe; oggi, all’Inter, non c’è più Gasperini ma arriva Palacio. Questioni di bilancio (allora non si poteva, ora si può)? Ripensamenti? Moratti resta unico.

Si chiude il 31 agosto, vi lascio immaginare la noia (Ranieri/Moravia) e la nausea (Mourinho/Sartre). Sempre che non ci «salvino» gli Europei o i botti di Scommessopoli. Ormai, non tira più nemmeno la conta delle stelle, e non è che De Laurentiis possa delirare una volta al giorno per assicurare titoli alternativi. O mercato o Barbara versus Galliani. Da Higuain a Destro il salto non è lieve e, temo, ce ne saranno di più spericolati.

Passano gli anni e Giovinco è sempre a metà (o metà?). Corsi e ricorsi, Vico e Fico, Balotelli e il codice Prandelli. La frase del giorno è di Ibra: se vado, vado; se resto, resto. Però.

La differenza

Roberto Beccantini21 maggio 2012

La finale di Coppa Italia ha regalato il primo trofeo al Napoli di De Laurentiis e inflitto la prima sconfitta alla Juventus di Conte, dopo lo scudetto e 42 partite. L’etica è stata espulsa sin dai barbari fischi all’inno di Mameli. Il Napoli ha meritato, alternando le lame di Hamsik e Lavezzi allo scudo di Cannavaro e Aronica. E poi il cuore: tanto, come nella tradizione. Credo che la pancia piena della Juventus e la gaffe di Storari su Lavezzi abbiano orientato il risultato. Le celebrazioni di Del Piero, pezzo di storia della Juventus, hanno condizionato il varo della formazione fino al masochismo. Non mi è piaciuto Brighi: mai affidare sfide così delicate a un arbitro all’ultima partita. C’era un rigore anche su Marchisio, ma per carità, «omnia munda mundis» e poi mancava ancora una vita.

Mazzarri ha raccolto quanto seminato. Se la Juventus è storicamente squadra da Giro o Tour, il Napoli ha confermato di privilegiare le «classiche», tendenza, questa, ribadita anche in Champions. A proposito: l’ha vinta, non più tardi di sabato sera, quel Chelsea che aveva eliminato il Napoli negli ottavi, ai supplementari (e se fosse rimasto quel genio «compreso» di Villas Boas, chissà).

In attesa di capire dove andrà Lavezzi (all’Inter o al Paris Sg?) e se resterà Cavani, onore al Napoli, e complimenti al Toro e al Pescara. Tornano in serie A, senza se e senza ma. Il Toro di Cairo e Ventura, il Pescara di Zeman. La società che, più di tutte, si agita nell’immensità dolorosa del passato; l’allenatore che, meglio di tutti, sa eccitare gli attaccanti e titillare noi guardoni. Il problema del Toro è evitare i su e giù che ne hanno caratterizzato i più recenti safari: pochi uomini (al comando), ma buoni. L’eresia di Zeman affascina e spaventa. Il suo limite è la dottrina, soprattutto quando ascende a dogma. Averne, però.