Uno, nessuno e centomila (tiri)

Roberto Beccantini12 aprile 2012

Juventus e Milan sono sempre lì, ciascuno a modo suo, aggrappati alle loro bandiere, Alessandro Del Piero 38 anni a novembre, Alessandro Nesta 36 anni compiuti a marzo; un punto di differenza, uno solo, trave o pagliuzza? Non abbiate fretta, ma abbiate fede: un giallo che si rispetti, tiene avvinto il lettore fino all’ultima riga dell’ultima pagina.

I tentacoli di Nesta, la punizione di Del Piero. Il Milan era a pezzi, ha battuto il Chievo con due tiri. La Juventus era indiavolata, ha sconfitto la Lazio, decimata, dopo non meno di una decina di «botti». Il primo tempo di Juventus-Lazio mi ha ricordato il primo di Juventus-Fiorentina: luna park allo stato puro ma, stringi stringi, la miseria di un golletto. Allegri bada al sodo, e da Verona ha strappato una vittoria che, se sarà mai scudetto, andrà affiancata, in bacheca, al colpaccio di Udine. Conte, lui, ha trasformato una zucca in una carrozza. Lo stadio di proprietà, d’accordo; e la proprietà di Pirlo: come no. E il livello mediocre del nostro calcio: ok. Resta il fatto che, oggi, la Juventus di Conte ha un gioco che, spesso, è il gioco migliore.

Imbattuta e alla quinta vittoria consecutiva, la Juventus dovrà fronteggiare un calendario meno agevole di quello che aspetta al varco il Milan, cinque partite su sei in casa (derby in trasferta compreso). Allegri recupererà a breve scadenza fior di titolari. Conte avverte sul collo, non solo il rumore dei nemici, ma anche il fiato del popolo juventino, troppo affamato per non buttarsi sul buffet dei sogni tornati, d’improvviso, ambizioni.

Al Milan, per segnare, basta una pallottola. Alla Juve serve un intero caricatore. Sono stili differenti, dettati dalle emergenze, dalle scelte e dalla stoffa dei singoli. La bocciatura europea ha agevolato rifornimenti più assidui. Il campionato era sotto la dittatura del Milan. Conte l’ha salvato dalla noia.

L’uomo di Pasqua

Roberto Beccantini7 aprile 2012

E adesso? Quando sceglie lo strumento, non sempre il destino ricorre al meglio su piazza. L’uomo di Pasqua è quell’Amauri che la Juventus aveva «espulso» e la Fiorentina raccolto smoccolando. Il gol con il quale ha stecchito il Milan non appartiene a nessuna logica, a nessuna strategia: è esistenzialismo puro, episodismo selvaggio. Amauri toglie la Viola dai guai e spiana la strada alla Juventus che, contro quel Palermo lì, ridotto a un asilo, non poteva non vincere.

Il sorpasso è un film che ha scolpito un’epoca e potrebbe modellare una volata. Mancano sette giornate, la Juventus ha firmato la quarta vittoria consecutiva mentre il Milan, tra Catania, Barcellona e Fiorentina, non ha spremuto che un pareggio. Nelle gambe dei campioni ci sono dieci partite in più: non poche, al tirar della primavera. I tifosi scalpitano. Di qua i muntaristi, per cui il gol di Muntari (sì, quello di Milan-Juventus) vale un campionato; di là, i rigoristi, per cui un penalty a favore in trentun partite è un’imboscata alla capolista, soprattutto se paragonato ai nove del Milan, l’ultimo dei quali una carezza di Nastasic a Maxi Lopez (più serio, se mai, il contatto De Silvestri-Cassano agli sgoccioli).

Allegri ha smarrito il pilota automatico, Conte dovrà gestire il peso del pronostico, foriero, sin qui, di spinosi girotondi. Il calendario indica come e quanto il Milan rimanga favorito, a patto che recuperi aggressività e freschezza. Continua a crederci Allegri, comincia a crederci Conte, finalista anche in Coppa Italia. La Juve sembra più tonica ed è più squadra. Il Milan ha appena recuperato Cassano, la Juve ha il destino in pugno. Allegri, in caso di secondo posto, rischia l’esonero. Conte potrebbe arrivare due volte secondo, e sarebbe comunque un’impresa. Sono i grandi estremi di un piccolo calcio.

Cattivo gusto

Roberto Beccantini4 aprile 2012

Il Milan ha dato tutto, il Barcellona è stato Messi; e, a essere sinceri, negli ultimi tempi lo è sempre di più, lo è sempre un po’ troppo. La squadra di Allegri era l’ultima delle sette «sorelle» rimaste in lizza. Barcellona 60, Milan 40 avevo scritto alla vigilia, sintesi di un divario concreto, anche se non schiacciante: non è più il Barça della scorsa stagione. Un po’ di paura, Ibrahimovic l’ha fatta, ma lì si è fermato: a sensazioni, a situazioni, non a occasioni.

A livello domestico, tutto fa brodo. Sul fronte europeo, viceversa, se lasci partire Pirlo e lo sostituisci con Van Bommel o Ambrosini, qualcosa perdi. Ci sono stati due rigori pro Barça, il primo netto, il secondo lontano dai nostri standard e dunque, per definizione, regalato. Invece no, c’era. Al massimo, severo. Si è lagnata perfino Barbara Berlusconi. La «Gazzetta» ha parlato di aiutino. Ibra ha solidarizzato con Mourinho («adesso capisco»).

Il solito campionario di lacrime, di allusioni, di cattivi pensieri (e cattivo gusto). Non un riferimento – ripeto: non uno – al penalty che gli arbitri, di campo e di porta, avevano sottratto a Sanchez, nella sfida d’andata. Milan, televisioni, giornali: il deserto. Era più limpido del secondo decretato al Camp Nou. Per la scuola fusignanista, nata attorno all’utopìa paranoica di Arrigo Sacchi, gli episodi non contano. Per me, invece, sì: contano. A patto di non isolarli, o di giocarci a nascondino.

In Europa, le scorte alla Grandi vanno e vengono, non sono «garantite» come in campionato, anche perché le nostre sono meno grandi di una volta. In un giorno, Nicchi ha detto no al gol fantasma di Robinho e Kuipers sì alla trattenuta di Nesta a Busquets. A chi scriverà, stavolta, Galliani? Fossi in lui, invierei un ultimatum al Milan Lab: Pato o mai più. Possibile che si «rompa» sempre, possibile che non sia colpa di nessuno?