Francia maglia nera

Roberto Beccantini7 maggio 2011

Lo scandalo delle «quote nere» che ha scosso la Francia è lo specchio dei tempi. Di porre limiti al reclutamento di calciatori africani non si è parlato nelle curve, fra teppisti, e neppure nei bar, fra ubriachi: se ne è discusso a livello ufficiale, l’8 novembre scorso, in ambito federale a Parigi. Difficile “giocare” all’equivoco: ma anche se di equivoco si fosse trattato, ci sono argomenti – e il razzismo è uno di questi – che non possono prestarsi a malintesi filosofici o ambiguità procedurali. Tanto più se, e quando,  il Front National di Marine Le Pen non la pensa in maniera poi così diversa. Siamo arrivati al punto che rischia il posto addirittura il commissario tecnico Laurent Blanc, reo di un atteggiamento troppo remissivo se non, peggio ancora, apertamente complice.

Non c’entra un eccesso di demagogia mascherata: c’entra, se mai, un difetto di democrazia stuprata. E che protagonista sia la Francia, proprio «quella» Francia che, nell’estate del 1998, trasformò il titolo mondiale nel simbolo della frontiere multietnica, significa che la cronaca ha perso terreno nei confronti della storia. Il razzismo non ha bisogno di detonatori, per esplodere. Spesso, basta un fiammifero, un gesto, una frase: un equivoco, appunto. Globalizzazione e meticciato hanno messo in crisi gli antichi catechismi, i vecchi confini, geografici e culturali. Lo sport dovrebbe rappresentare uno strumento di educazione, di vicinanza, di confronto. Non sempre è così. L’ignoranza, l’indifferenza e la diffidenza hanno trascinato gli stadi verso picchi di spericolata e scandalosa impunità.  Il caso Francia è un assist ai talebani della purezza etnica, un invito a pescare nel torbido dei colori. Si butta l’amo e poi ci si nasconde: qualcuno abbocca sempre.

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Avvisate Berlusconi

Roberto Beccantini5 maggio 2011

Con tutto il rispetto: non se ne può più. Bisogna che qualcuno si faccia coraggio e glielo dica. E che lui, Silvio Berlusconi, se ne faccia una ragione. Per ora, e sinora, Santiago Bernabeu de Yeste ha vinto di più. Siamo in zona sorpasso, manca poco, pochissimo, giusto che a Milanello abbiano già messo lo champagne in frigo: ma l’aritmetica impone un ultimo guizzo, un estremo scalpo.

Basta far di conto. Il Cavaliere prese il Milan nel 1986. Da allora, ha conquistato 27 trofei, così suddivisi:  otto scudetti, una Coppa Italia, cinque Supercoppe di Lega, cinque Coppe dei Campioni/Champions League, cinque Supercoppe d’Europa, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club.

Dopo esserne stato giocatore e segretario, Santiago Bernabeu diventò presidente del Real nel 1943, carica che mantenne fino al 1978, anno della morte. Il sito societario riporta il seguente bottino: sedici campionati, sei Coppe nazionali, sei Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale. In tutto, per dirla alla Mourinho, 29 «tituli». Ci sarebbe poi l’albo d’oro del Real basket, che sotto la sua gestione sommò diciannove campionati, diciotto coppe, sei coppe dei Campioni e tre Intercontinentali, ma questa è un’altra storia.

Ricapitolando: Bernabeu 29, Berlusconi 27. Questione di giorni e, dopo lo scudetto ritirato a Roma, potrebber arrivare la Coppa Italia,. Per la collezione di Sua Emittenza, sarebbe il francobollo numero 28.  Ad Arcore e dintorni qualche zelante Pigafetta si è portato avanti con il lavoro, dimentico del motto presidenziale: natura non facit saltus. Appunto. Berlusconi reclama, inoltre, uno stadio con il  suo nome. Da vivo, possibilmente: proprio come l’illustre inquilino della Casa Blanca. Voce dal fondo: se lo faccia.

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Tifoso sarà lei

Roberto Beccantini27 aprile 2011

C’era una volta la scadenza «perentoria» del 30 giugno, termine entro il quale o avevi i conti in regola per iscriverti al campionato oppure ciccia. A meno che. A meno che qualche sindaco o qualche capo ultrà non decidesse di bloccare qualche stazione in qualche parte d’Italia: in maniera «perentoria», naturalmente. Se le vie del Signore sono infinite, vi lascio immaginare le vie di Carraro (nel 2005 e dintorni). Riposto «perentorio» nel cassetto, ecco spuntare uno stravagante braccio di ferro attorno ai 200 milioni di euro che le venti società della Lega di serie A si accingono a dividersi. Dovrebbero farlo in base al cosiddetto bacino d’utenza. Traduzione: in base al numero dei tifosi. In condizioni normali, non dovrebbe esserci gara. Ci sono cinque società che, in termini di seguito, staccano le altre quindici: Juventus, Inter, Milan, Napoli, Roma. Neppure il più pignolo ed esigente dei linguisti troverebbe da ridire. Volete mettere i tifosi di Juventus, Inter, Milan, Napoli e Roma con i tifosi del resto d’Italia?

Il problema è che siamo il Paese del «perentorio». E allora cosa si sono inventati Lotito e i suoi amanuensi? L’allargamento del concetto di «tifoso»: la prolunga geografica, la cittadinanza di riserva (se sono supporter della Juventus ma vivo a Verona e sono abbonato al Chievo, per la proprietà transitiva divento tifoso «anche» del Chievo, al quale andrà riconosciuta una piccola quota del bacino d’utenza di cui sopra). E’ nata, così, la figura – o forse il mestiere – del «sostenitore», in antitesi, o quasi, alla professione di «tifoso».

Giù il cappello. O meglio: giù il vocabolario. La stessa Giovanna Melandri, la «ministra riscaldata» che si battè per fare chiarezza (?) sui diritti televisivi, si è ben guardata dal prendere posizione. Nessun dubbio che la vendita dovesse abbandonare il postribolo dell’individualità per abbracciare il convento del collettivismo. Ma «tifoso» e «sostenitore» sono sinomi, non contrari. Qualcuno avvisi Lotito. O gli compri un dizionario.

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