E’, dunque, il Barcellona la squadra più forte di tutti i tempi? Non ancora. Capisco il sentimento popolare che, ogni settimana, può ordinare al tv-service lo champagne di Messi e il caviale di Xavi. Comprendo l’emozione, fortissima, che capolavori come il 5-0 al Real Madrid in campionato e il 3-1 al Manchester United nell’ultima finale di Champions League agitano nei cuori di noi incalliti guardoni. Non trascuro altresì l’effetto contagio che il dolce stil novo di Pep Guardiola ha contribuito a diffondere: più sui giornali, temo, che non ai campi di allenamento.
Tutto ciò doverosamente premesso, sarà la storia, e non la cronaca, a pesare il Barcellona, «questo» Barcellona. In casi del genere, la memoria, pigra e viziata com’è, tende a ribellarsi ai paragoni. Il grande Torino di Valentino Mazzola, la Honved fulcro della mitica Ungheria anni Cinquanta, il leggendario Real Madrid del quinquennio 1956-1960, la Grande Inter di Helenio Herrera, l’Ajax del calcio totale, il Bayern della tripletta, il Liverpool a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, con Keegan e poi Dalglish a cassetta, il Milan della paranoia sacchiana, La Juventus tridentina di Lippi, il Ferguson United di Manchester: aspettiamo che il Barcellona di Messi si «ritiri», prima di liquidare il passato alla stregua di Jurassic Park.
E’ più forte Pete Sampras o Roger Federer? Bjorn Borg o Rafa Nadal? Gianni Clerici e Rino Tommasi vi si accostano con il pudore degli esperti che, proprio perché tali, sanno di doversi fermare un attimo prima della risposta, e non un secondo dopo. Nessun dubbio che il Barcellona sia ben avviato a lasciare orme memorabili. Non è un modello, e nemmeno una cassa di risparmio. E’ un’accademia delle belle arti, una risonanza per tutte le casse. Fino al 2006, non aveva vinto che una Champions; da Rijkaard e Ronaldinho a Guardiola e Messi ha cambiato marcia e celebrato il Te deum del possesso palla.