L’errore di Moratti

Roberto Beccantini5 dicembre 2011

Credo che l’errore di Moratti sia stato Rafa Benitez: il suo esonero, ora è un anno, e non già la sua assunzione. Dopo la tripletta, chiunque avrebbe pagato pegno alla cassa di José Mourinho. I tifosi sono nostalgici. Gli interisti rimpiangono Mou, appunto, gli juventini Lippi, i milanisti Sacchi, i veronesi Bagnoli e così via. Benitez era una scelta panglossiana, il meno peggiore degli allenatori possibili in quel momento e per quelle esigenze. Un solo distinguo: era tecnico più da lotta che da governo. Aveva portato al successo cani sciolti come il Valencia e, in Champions, il Liverpool del Duemila. Per questo, avrebbe avuto bisogno di una società forte, presente, solidale.

Viceversa, per la prima volta nella storia Moratti non fece mercato, arrivando persino a vendere Balotelli. Evviva il financial fair play, ma insomma, non è che Benitez chiedesse la luna. Una Supercoppa di Lega e il Mondiale per club non bastarono a rendere fecondo il rapporto di coppia. Non discuto gli errori di Benitez, anche se conservo gli epinici dedicategli dopo Inter-Bari 4-0 del 22 settembre 2010: meglio la sua Inter di quella del Vate, addirittura. Ad Abu Dhabi Rafa alzò la voce, il padrone non gradì e così fu Leonardo: un seduttore, non un carismatico. E, soprattutto, un «non allenatore», mestiere che non ha mai avuto nelle corde; tanto che, archiviati il secondo posto e la Coppa Italia, mollò tutti per rifugiarsi nel castello del Paris Saint-Germain. Moratti gli aveva regalato, a gennaio, il mercato negato in estate a Benitez: Pazzini, Ranocchia, Nagatomo, Kharja.

Dopo Leonardo, una pila di nomi (Bielsa, Capello, Villas-Boas). Dopo la pila di nomi, Gasperini. Dopo Gasperini, Ranieri. Via Oriali, e sempre più potere ai giocatori, come una volta. Squadra a fine ciclo, urgenza di rifondazione. Nessun allenatore vale Eto’o: proprio per questo, tanto valeva tenersi Benitez. O no?

In morte del dottor Socrates

Roberto Beccantini4 dicembre 2011

In morte di Socrates, la malinconia scende come una pioggia leggera che affronto senza ombrello, felice di bagnarmi. Era un brasiliano lungo e barbuto, molto tecnico e molto impegnato, molto politico: un Paolo Sollier con i gradi del leader. Beveva come una spugna, giocava di punta e di tacco, aveva un nome chilometrico, da Lascia o raddoppia?: Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira. Aveva, soprattutto, 57 anni.

Gli piaceva vivere tra le folle più che fra le zolle, si poneva sempre di fronte all’ovvio, al sistema. Godeva a essere diverso, quando non proprio «anti». Dottore di laurea, le sue partite non finivano mai al novantesimo. Al contrario: riprendevano, continuavano proprio di lì, fino a invadere gli spogliatoi, come accadde ai tempi del Corinthians, per culminare nell’autogestione e nel rifiuto dell’autorità dell’allenatore. Vista l’imponenza del sacrilegio, venne scomunicato e messo all’indice.

Il gol a Dino Zoff al Sarrià di Barcellona fu uno degli strumenti scelti dal destino per portare la storia in grembo a Paolo Rossi, che già aveva cominciato a frignare. Mondiale ’82, l’estate del nostro «contento». La stagione di Firenze non fece scoccare la scintilla, troppo lontana la sua filosofia del vivere comunque, al di là di moviole e clausure, dai nostri riti tribali, dalla nostra concezione bellico-religiosa del calcio.

Capitan Socrates è stato un rifinitore-pivot, avanzato o arretrato a seconda dei sentieri battuti da Zico o chi per lui; tanto per rendere l’idea, un Ibra più acculturato e flemmatico, meno esplosivo e avido sotto porta. Alta categoria, non altra categoria; vittima del suo personaggio, carnefice della sua persona. Da «Libertà» di Jonathan Franzen: «Non basta sprecare la propria vita per impedirle di passare. Anzi, così passa ancora più in fretta». George Best non la pensava così. E nemmeno Socrates.

B contro B, che barba

Roberto Beccantini30 novembre 2011

Che barba. Ancora ‘sta menata di SB contro BS, Silvio Berlusconi contro Bernabeu Santiago: l’uno presidente del Milan dal 1986; l’altro, presidente del Real Madrid dal 1943 al 1978, anno della morte. Non è vero che il Cavaliere, come ha millantato anche in questi giorni, sia il presidente di calcio più vincente di tutti i tempi, Bernabeu compreso. Mi ero occupato dell’argomento il 5 maggio scorso, quando stavo allestendo il blog; ne avevo scritto, così, per allenamento.

Don Santiago Bernabeu Yeste, al quale – da vivo – il Real ha dedicato lo stadio «Chamartin», ha conquistato, complessivamente, 29 titoli. Nel dettaglio: sedici campionati, sei Coppe nazionali, sei Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale. Berlusconi, da parte sua, ne ha raccolti 28: otto scudetti, una Coppa Italia, sei Supercoppe di Lega, cinque Coppe dei Campioni/Champions League, cinque Supercoppe d’Europa, competizione il cui battesimo risale al 1972, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club. Per la cronaca, per la storia e per la matematica, gliene manca uno.

Sempre per la cronaca, per la storia e per la matematica ci sarebbe pure Jorge Nuno de Lima Pinto da Costa, 74 anni a fine dicembre, presidente del Porto dal 1982 e firmatario di qualcosa come 55 trofei: diciotto scudetti, dodici Coppe del Portogallo, diciotto Supercoppe nazionali, due Champions League, una Supercoppa d’Europa, due Coppe Uefa/Europa League, due Coppe Intercontinentali. Insomma: nessuno mette in dubbio la competenza calcistica di Silvio B., difesa e diffusa dai suoi cortigiani; in discussione sono, semplicemente, le sue nozioni statistiche.

Fede, coraggio, avanti. Ancora due titoli, due soli, e finalmente Berlusconi scavalcherà Bernabeu. Quel giorno, scommetto che da Arcore si leverà una voce: visto? L’aveva detto, «Lui».

Unto (del Signore) e a capo.