L’architetto

Roberto Beccantini9 luglio 2023

Luis Suarez Miramontes si è spento all’ospedale Niguarda di Milano, dove viveva, consumato da un tumore. Aveva 88 anni, compiuti il 2 maggio. Uno dei più grandi del Novecento. Alfredo Di Stefano lo definì l’Architetto. L’uno, blanco del Real; l’altro, azulgrana del Barça. Eppure amici per la pelle; e per la palla. La Galizia, terra all’estremo nord-ovest della Spagna, ci ha dato due caudilli. Un fuoriclasse, lui; e Francisco Franco, non proprio.

Era gracile, molto gracile, e così il papà, macellaio, lo rimpinzava di bistecche. Giovanili nel Deportivo, non ancora Superdepor, e poi il Barcellona, dal 1954 al 1961. Fra i compagni, campionissimi del calibro di Ladislao Kubala, Sandor Kocsis, Evaristo. E come allenatore, il più influente, un certo Helenio Herrera. Insieme, vinsero 2 Lighe, 2 Coppe domestiche e 1 Coppa delle Fiere. Nel 1961, per la cronaca e per la storia, Suarez disputò la finale di Coppa dei Campioni, a Berna: 3-2 per il Benfica di Bela Guttmann e non ancora di Eusebio. La prima al di fuori del quinquennio madridista. Un ingorgo di pali, alcuni sicuri e altri misteriosi; sui due di Kubala si può scommettere.

Helenio aveva già firmato per l’Inter. Lo segnalò, lo volle a tutti i costi. Angelo Moratti e Italo Allodi glielo portarono al «modico» prezzo di 250 milioni di lire (dell’epoca), cifra che permise ai catalani di arredare e ampliare il Camp Nou. Cominciava un nuovo romanzo. L’era della Grande Inter: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Diventò Luisito. Numero dieci, atipico rispetto agli atipici del ruolo. Nel senso che sapeva fare tutto, anche i gol: un po’ come Michel Platini, citato in un’intervista a Gianni Mura. Nel Barça giocava avanzato e, dunque, segnava di più; nell’Inter arretrò in regia, rampa per gli scatti di Sandro Mazzola e Jair. E, quindi, segnò di meno.
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Senza esagerare. Di rigore il rosso

Roberto Beccantini18 giugno 2023

Battere l’Olanda a casa sua – anche «questa» Olanda, per almeno un’ora fragile, grigia e sterile – è sempre motivo di vanto. E allora, piccoli appunti-spunti.

1) La Nations League è stata creata (da Platini, ahimè) per raccogliere mance dalle tasche delle amichevoli. Terzi, nel 2021, e terzi pure a Enschede. In entrambi i casi ci è stata fatale la Spagna. Poi, nella finalina, 2-1 al Belgio e 3-2 ai batavi.

2) Mezz’ora alla grande: dal 3-5-2 al 4-3-3, lo «spartito» che sentiamo di più. Per quanto non sia il modulo a fare il monaco. O non debba essere.

3) I «cannonieri». Dimarco ha aperto le danze: bel terzino, grande stagione, gran gol. Di sinistro, senza se e senza ma. Occhio, viceversa, alla fase difensiva: la finta di Bergwijn l’ha proprio bevuta fino all’ultima goccia.

4) Frattesi. Ha il gusto del blitz, il senso della porta. Con le furiette, aveva dettato il lancio a Jorginho e firmato una rete annullata per mezza scapola in fuorigioco; con l’Olanda, ha segnato d’astuzia, in mischia. Asilo alla Lazio, laurea al Sassuolo, 23 anni: non mi stupisce che sia al centro del villaggio (e del mercato). A patto che legga gli epinici, il mio compreso, «cum grano salis».

5) Chiesa. Il suo ruolo è all’ala. Non punta d’appoggio: vedi Spagna, vedi la Juventus dell’Allegri bis. Tra il pre e il post infortunio resta ancora un abisso, al netto dei carcerieri o dei liberatori. E del gol odierno, in contropiede (uhm).

6) Positivo l’esordio di Buongiorno. Prezioso sempre, Acerbi. Il Mancio è uomo di mondo: sorriderà dei su e giù della propaganda, da è tutto uno schifo a è tutto un giardino. Più o meno.

7) Retegui. Era alla terza, dopo i gol a inglesi e maltesi. Scomparso tra i fili spinati di Van Dijk. Immobile ha 33 anni, il centravanti – di ruolo, di peso – rimane un problema. In attesa che si rimetta Scamacca. Coraggio
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Hic Rodri hic salta

Roberto Beccantini15 giugno 2023

Patti chiari, sempre: palla a loro, contropiede a noi. Poi scarti il pacco ed estrai il risultato: 1-1 agli Europei, con i rigori a baciarci; 1-2 a San Siro, in Nations League, con Bonucciata di nervi; e 1-2 a Enschede, sempre per la Nations League, con ennesima Bonucciata (di piede, stavolta).

Se isoli gli episodi – gol di Frattesi annullato per mezza scapola in fuorigioco, su lancio filtrante di Jorginho; grande parata di Donnarumma su Merino, idem Unai Simon su Frattesi, otra vez, incursore emerito – rischi di scivolare sulla buccia di un giudizio mentiroso. Da Luis Enrique a De la Fuente, le furiette continuano a masticare calcio attorno a quel capo assoluto che si sta rivelando Rodri (citofonare Inter). L’Italia, viceversa, è da un po’ che naviga a vista, abbarbicata a un 3-5-2 che, a naso, ne penalizza il coraggio più di quanto non ne fortifichi la manovra: penso a Di Lorenzo, trave nel Napoli pagliuzza in Nazionale.

Le orme dei gol aiutano a tracciare i confini dell’analisi: fotta di Bonucci e interno destro di Yeremy Pino; braccio alto di Le Normand, all’esordio, e rigore di Immobile (tutto lì, Ciro); tiro di Rodri, doppia carambola e zampata di Joselu, «unto» dal signore delle mischie. Aveva sostituito Morata, del quale non si discute la generosità, ma l’istinto sotto porta. Dai suoi cambi, in compenso, il Mancio non ha ricavato altrettanto: Verratti periferico, Chiesa spaesato (né ala né punta: dove l’ho già sentita?). A parte, lo Zaniolo di ritorno: siamo ancora alle sportellate dimostrative.

Ci hanno tritato soprattutto a metà campo. Per fortuna, il 62% di possesso non ha prodotto sconquassi. Se Olanda-Croazia 2-4 dts era stata movida selvaggia, Spagna-Italia è diventata, per dirla con Borges, una rissa fra due calvi che si contendevano un pettine. Ha vinto, alla fine, il meno pelato.