Portieri sliding doors. A Reggio Emilia, Szczesny. Allo Stadium, Milinkovic-Savic. Era il derby, però. E allora, fuoco. Due corner di Kostic, due uscite farlocche del serbo, la zampata di Gatti (oh yes) e la capocciata di Milik. Sì, l’Armadiusz polacco che Allegri aveva nascosto per un tempo, preferendogli Miretti. Non esattamente una botta di coraggio. Tanto è vero che, sino all’intervallo, il Toro aveva tenuto il campo con dignitoso zelo. E Madama era stata sulle sue, parca – come sempre – nel darsi alle fregole dei prestazionisti (uffa).
Senza i gol di Chiesa e Vlahovic, la Vecchia; senza la difesa, Juric. Il quale, pur prigioniero del braccino corto di Cairo (non è tutto, non è poco), non mi è piaciuto: troppo tardi, Sanabria. Quello Zapata lì sembrava un dipinto di Botero. Se per metà match non c’erano stati né tiri né «telefonate», per l’altra metà gli episodi hanno agitato la trama, consegnandone il governo alla Juventus. Per lunghi tratti si è giocato a ritmi che gli alluci dei protagonisti non potevano oggettivamente reggere. Difatti. Reti a parte, qualche parata Milinkovic l’ha fatta (su Milik, tanto per cambiare); Szczesny no, se non una agli sgoccioli. Mi sono piaciuti la regia di Locatelli e il tremendismo di Kean (contro Schuurs, il più granatiere dei granata). Quel Gatti che partiva in tromba, se paragonato al Tafazzi del Mapei, sapeva di calcio alternativo al tran-tran aziendale.
Il Toro non ne vince uno dal 2015. Metteteci pure le rose – anche se non così lontane come una volta – ma il fatto che lo sbagli spesso, e addirittura sul piano caratteriale, è spia ambigua, pericolosa. Ricorderemo questa edizione non per la bellezza che il loggione invoca (anche perché la scorge altrove). La ricorderemo, se mai, per quel quarto d’ora di popolarità , dal 48’ al 62’, che, parola di Andy Warhol, non si nega a nessuno. A maggior ragione se l’ha meritato.
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