Rien ne va «Mou»

Roberto Beccantini1 giugno 2023

Rien ne va «Mou». Perdere così ti fa rimpiangere di non essere morto prima, magari già nei quarti o giù di lì. Fa troppo male, un male che conosco, lasciarsi sfuggire una finale che non finiva mai, cominciata un mercoledì di maggio e terminata un giovedí di giugno, dopo 147 minuti di lotta dura, sporca e cattiva. Dopo «due giorni» di bolge e di crampi, di passioni e di pulsioni.

Va, dunque, al Siviglia quella Europa League che la Roma e il suo stregone volevano abbinare alla Conference di Tirana. Prima che molti, da Matic a Fernando, crollassero esausti, i duellanti se le erano date di santa ragione, ciascuno seguendo il proprio stile, la propria indole. La Lupa, subito in sella alla gioia di Dybala, bel gol (su lancio filtrante di Mancini, uno che quando non fa il matto è pure bravo, e non solo utile); poi vigile e compatta almeno per una quarantina di minuti. Il Siviglia è la classica zitella che ti trapana di palleggi, nella speranza che tu possa distrarti per poi fartelo pesare. Ma se non ti distrai, patisce.

Una partita selvaggia. Non formidabile e, quindi, non memorabile. Ma, per i popoli coinvolti, di un pathos che celebreranno e malediranno in eterno. Ha vinto, ai rigori, lo José meno nobile, José Luis Mendilibar. L’artigiano, non lo sciamano. Il palo di Rakitic, l’autorete di Mancini e, sparse qua, e là le occasioni di Spinazzola (in avvio), Ibanez (in mischia), Belotti e, alla fine della fine, la traversa di Smalling, il Tarzan di Budapest, raccontano di un’ordalia a lungo indecisa se premiare il possesso barocco degli spagnoli o le vampate improvvise di avversari meno narcisi.

Il serbatoio dell’Omarino aveva benzina per un’oretta. Si sapeva.
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Il patto quotidiano

Roberto Beccantini31 maggio 2023

Ah, gli esperti (non solo i miei). Sul filone plusvalenze fittizie: mancano precedenti certi, manca una legge, tranquilli. Morale: meno 10. Sul filone stipendi: qui sì che sarà pianto e stridore di denti, allacciatevi le cinture. Morale: 718 mila euro di multa. Fra il partito dell’annientamento e la fazione del rovesciamento, ha vinto – all’italiana – la Juventus del patteggiamento. Che è un po’ colpa e un po’ puntini di sospensione («sempre che non facciate ricorsi: come se qualcuno nascondesse qualcosa, o avesse paura di qualcuno, o di qualcosa. Uhm).

Traduzione: niente cassaforte Champions, la prossima stagione. E, per ora, solo gli spiccioli della Conference che, secondo l’erre moscia dei radical-chic, sta alle altre coppe come la suocera al telecomando. Sempre che Ceferin non le tolga pure quella: ipotesi che, alla Continassa, mi dicono non abbia creato subbuglio né seminato panico.

Quando c’è di mezzo la Juventus, il Paese si spacca. Naturalmente. Geneticamente. Alcuni parlavano addirittura di serie B. Vi giro un brano di Lorenzo Vendemiale de «il Fatto quotidiano», periodista y diario al di sopra di ogni sospetto: «La retrocessione di cui tanto si è parlato a sproposito, non è mai stata seriamente in discussione, e – diciamo la verità – non sarebbe stata neanche congrua: il codice la prevede solo in caso di vizi sulla regolare iscrizione al campionato, e nessuno può sostenere che la Juve di Agnelli non avrebbe potuto partecipare alla Serie A, senza i benefici contabili delle plusvalenze e della manovra stipendi».

E allora? Provate a invertire l’ordine degli «addendi»: meno 10 per la manovra stipendi; ammenda per le «auto-plusvalenze» (nel senso che i partner si aggirano nel vago). In questo caso, ci sarebbero stati meno strilli. Forse.
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Fino alla fine

Roberto Beccantini28 maggio 2023

Sono annate così, colpevoli e disgraziate. Il Milan, che fu campione, solo in campo. La Juventus, anche fuori. Ha vinto la squadra di Pioli: senza toccare i picchi della scorsa stagione, ma capace di sopravvivere, proprio perché squadra, ai limiti della broccaggine. Allegri l’aveva buttata sull’orgoglio, su un 3-4-3 che il cuore spostava oltre la fifa aziendale, ma che fatica liberarsi dalle catene di un’idea troppo passiva e remissiva, che sofferenza.

Siamo sempre lì. Per provarci, Madama ci ha provato. E in alcuni frangenti – nel primo tempo, almeno – persino con buona lena. Ma i problemi (tecnici, tattici) erano e restano troppi. L’Allegri di ritorno: un disastro. Di Maria: lontano da Messi, mamma mia (al di là della posizione); non un guizzo, non un lampo; e l’ennesimo sgorbio sotto porta. Chiesa: non è ancora lui, lo sa, ma se gli chiedi di correre i cento metri come Jacobs, per giunta con un cuoio tra i piedi, beh, insomma, qualcosa non torna.

Allegro, è stato il ritmo. Solo quello. I duellanti si allungavano, i contropiedi e i contro-contropiedi crepitavano da un tackle vinto, da una palla persa. Il tremendismo di Kean e gli inserimenti di Tonali picchiettavano la notte come gocce di pioggia sui vetri di una finestra. L’ha orientata, l’ordalia, una frustata di testa di Giroud, su cross al bacio di Calabria. Il centravanti, toh. Un ruolo che si è ripreso il podio toltogli da «il mio centravanti è lo spazio». Slogan che, paradossalmente, il Pep ha ripudiato per «consegnarlo» a Max. Un’altra storia, vecchia anche questa: tira poco e male, la Signora; e per questo segna poco. I ventelli di Cristiano nascondevano un fracco di equivoci.

Non lo scempio di Empoli. Questo no. Una partita da pareggio, risolta, ripeto, da un episodio, ma quante ne vinceva, di partite così, la Juventus dell’Allegri first?
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