Diario mondiale, diciassettesima puntata. Devoti di Fusignano e nerd di Coverciano. Minestrari e cavialisti. Fanatici del tiki taka e maniaci del campanile. Tutti in piedi: con un tiro nello specchio, uno solo in 130’, la Croazia ha scortato il Brasile ai rigori e, come con i nippo, l’ha fregato. Tutti in piedi, non scherzo. La Croazia non arriva a 4 milioni di abitanti, eppure: terza nel 1998, seconda nel 2018. Il Brasile del «jogo bonito», esplosivo contro i coreani, torna a casa nei quarti: gli era già successo in Russia. A quanto mi date che Tite, colui che ballava il samba in panchina, verrà declassato da maestro a somaro? Girano quote interessanti.
La Croazia è la costola calcisticamente più raffinata di quella Jugoslavia che definimmo il Brasile d’Europa. Sarebbe il caso, e l’ora, di dare al Brasile della Jugoslavia del Sudamerica. E questo, al netto della propaganda, per il reiterato spreco di talento e le immancabili amnesie nei momenti topici.
La partita. Un western moscio, con sparatorie varie solo nella ripresa. Non nel primo tempo, controllato dalla banda Modric, con uno Juranovic, terzino destro, migliore per distacco, e un Pasalic, mossa segreta, di utilità estrema. Mancava, agli «scacchisti» di Dalic, un centravanti di peso: il Suker etichetta ‘98, il Mandzukic vendemmIa ‘18. Un tipo così. Ecco (anche) perché non risultano tiri in porta. Sì, il «fuoricampo» di Brozovic avrebbe potuto alterare la trama, ma si è perso nell’al di là di Doha. Nessuno, nessuno, nemmeno il destino. Tranne quello lì, di Petkovic, entrato per offrire palloni da asporto come un pizzaiolo annoiato.
Piano piano, o Brasil prendeva campo. E Livakovic, sempre lui, conquistava la «prima»
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