La Jugoslavia del Sudamerica

Roberto Beccantini9 dicembre 2022

Diario mondiale, diciassettesima puntata. Devoti di Fusignano e nerd di Coverciano. Minestrari e cavialisti. Fanatici del tiki taka e maniaci del campanile. Tutti in piedi: con un tiro nello specchio, uno solo in 130’, la Croazia ha scortato il Brasile ai rigori e, come con i nippo, l’ha fregato. Tutti in piedi, non scherzo. La Croazia non arriva a 4 milioni di abitanti, eppure: terza nel 1998, seconda nel 2018. Il Brasile del «jogo bonito», esplosivo contro i coreani, torna a casa nei quarti: gli era già successo in Russia. A quanto mi date che Tite, colui che ballava il samba in panchina, verrà declassato da maestro a somaro? Girano quote interessanti.

La Croazia è la costola calcisticamente più raffinata di quella Jugoslavia che definimmo il Brasile d’Europa. Sarebbe il caso, e l’ora, di dare al Brasile della Jugoslavia del Sudamerica. E questo, al netto della propaganda, per il reiterato spreco di talento e le immancabili amnesie nei momenti topici.

La partita. Un western moscio, con sparatorie varie solo nella ripresa. Non nel primo tempo, controllato dalla banda Modric, con uno Juranovic, terzino destro, migliore per distacco, e un Pasalic, mossa segreta, di utilità estrema. Mancava, agli «scacchisti» di Dalic, un centravanti di peso: il Suker etichetta ‘98, il Mandzukic vendemmIa ‘18. Un tipo così. Ecco (anche) perché non risultano tiri in porta. Sì, il «fuoricampo» di Brozovic avrebbe potuto alterare la trama, ma si è perso nell’al di là di Doha. Nessuno, nessuno, nemmeno il destino. Tranne quello lì, di Petkovic, entrato per offrire palloni da asporto come un pizzaiolo annoiato.

Piano piano, o Brasil prendeva campo. E Livakovic, sempre lui, conquistava la «prima»
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Il coraggio

Roberto Beccantini6 dicembre 2022

Per ora è «solo» un risultato: Portogallo-Svizzera 6-1. Ma ha tutta l’aria di diventare, anche, un confine. Come la vita e lo sport impongono, quando l’età incombe (presto saranno 38) e l’Ego sbrocca. Stravince il coraggio di Fernando Santos, così accigliato ed ermetico, spesso, da sembrare un personaggio di Pessoa. Fuori Cristiano Ronaldo, che tra United, arabi e scatti (di rabbia) ha la testa altrove. Lo sostituisce Gonçalo Ramos, centravanti ventunenne del Benfica. Un giovanotto di fame e coltello. Tre pere: la prima, con una sassata; la terza, di destrezza; la quarta, di scavetto. In mezzo, la zuccata di Pepe e la sventola di Guerreiro; in coda, il destro a giro di Leao, altro panchinaro di lusso (come Joao Cançelo).

E’ poi entrato, il marziano, per raccogliere gli spiccioli tiratigli dal ct e Pepe – 39 anni di duelli e randelli – gli ha lasciato la fascia di capitano. Le scelte competono al tecnico; la stima e il rispetto, a tutti. Grande Portogallo, dunque, sui livelli del Brasile «coreano». Immagino che Yakin si aspettasse Cristiano. In difesa, è passato da quattro a tre: peggio che andar di notte. Specialmente se alla vendemmia contribuiva persino Sommer. La rete di Akanji, uno stopper, pesava un rigo di giornale, forse meno.

Al concerto ha partecipato ogni singolo musicante: da Bernardo Silva (figuriamoci) a Joao Felix (finalmente), da Bruno Fernandes a William Carvalho. Di fronte a simili scarti è sempre complicato distinguere meriti e demeriti. Venivano, i lusitani, dalla loro piccola Corea. Gli svizzeri, dal romanzesco 3-2 alla Serbia. Di sicuro, non c’è titolare del Portogallo che non abbia dato il massimo pur di dribblare il processo che i Torquemada di domani, da sorteggiare a caso tra i leccatori di ieri, gli avrebbero intentato, «se».

Dunque: ultimo quarto, Marocco-Portogallo. Rosso fuoco.

Marocco, non il pensiero unico

Roberto Beccantini6 dicembre 2022

Dario mondiale, sedicesima puntata. La notizia, grossa, è il Marocco nei quarti. Mai successo. Squadra né antica né moderna: trasversale. Con un ct, Regragui, che gli ha inculcato geometrie di gamba e di cuore. Giocate come sapete, perché sapete come si gioca. Quattro partite, e un solo gol preso: su autorete, per giunta. L’ultima vittima è la Spagna delle «sartine». Ai rigori, come la Croazia con il Giappone. Bounou ne para due (a Soler, a Busquets) e a uno, quello di Sarabia, ci pensa il palo. Dicono che Unai Simon avesse un foglietto: tizio tira così, caio cosà. Ne ha beccato uno (Benoun). Sabiri, Ziyech e Hakimi, di cucchiaino, col cavolo che sbagliano. Morale: da 0-0 a 3-0.

Primo tempo, più Marocco. Secondo, solo Spagna. Ma sempre la stessa minestra. Falso nueve in avvio (Asensio o chi per lui), poi Morata dentro e una nuvola estenuante di tocchi e ritocchi, che alla Nasa di Coverciano celebrano ogni volta a champagne e dalle mie parti non proprio. Il pensiero forte costituisce una risorsa. Il pensiero unico sappiamo, nella storia, dove ci ha portato.

Il legno scheggiato da Sarabia al 123’ è un rimorso, non un rimpianto. Il Marocco badava al sodo. Vi raccomando l’eretismo podistico di Amrabat, i rammendi di Ounahi, lo stoicismo di capitan Saiss, le volate di Hakimi, i guizzi di Zieych, anche se da uno del suo talento ci si aspetta sempre la luna, e quel Boufal capace, per 45’, di mandare al manicomio Marcos Llorente. Nei supplementari, c’è stata gloria persino per Cheddira, bravo a cogliere l’attimo, non altrettanto nello sfruttarlo.

Non è una gara che ricorderemo per il livello tecnico. Se mai, per il discorso che facevo prima: neppure Pedri e Gavi possono permettersi di toreare a metà campo, se il tiro diventa una scocciatura. Ma è il giorno del Marocco. L’Africa batte un colpo.