Ballando sopra le stelle

Roberto Beccantini5 dicembre 2022

Ballando sopra le stelle. Il Brasile si mangia la Corea del Sud in un tempo e poi danza di rendita: gattone, non più ghepardo. Nei quarti, avrà la Croazia. Prendete il carnevale di Rio e trasferitelo a Doha. Quattro a uno: Vinicius, Neymar (al rientro) su rigore, Richarlison (di azione, e che azione!), Paquetà (al volo). Musica, maestri. Ognuno al suo posto con il suo strumento: anche Alisson, quando i rivali lo stuzzicano. E chi non segna, come Raphinha e Casemiro, Thiago Silva e Danilo, o ci va vicino o impedisce che ci vadano i rivali.

Seung Ho salva l’onore degli asiatici, difeso ai limiti del possibile. Così si gioca solo in paradiso, direbbero a Bologna. Triangoli avvolgenti, spazi decorati e di rado intasati, quel senso di gioia che, nei momenti d’ispirazione, restituisce il «futebol» alla strada e agli oratori, là dove il confine tra schiappa e campione era concetto vago. Si riveriva chi portava il pallone. E chi dribblava, si sentiva il mondo in tasca. Dietro le reti, «a zona», le nonne e le mamme vegliavano sulle tibie.

Il Brasile non vince il titolo dal 2002, dall’edizione che si tenne in Corea del Sud e Giappone. Era, quella, l’epoca di Ronaldo il fenomeno e di Rivaldo, di Ronaldinho e di Roberto Carlos. Rime baciate e palle incatenate. Cinque titoli, il massimo. Uno in più di Germania e Italia. In Russia, nel 2018, uscì nei quarti per mano del Belgio. Nel 2014, in casa, venne travolto in semifinale dalla Germania (1-7, addirittura). Nel 2010, pagò ancora nei quarti, con l’Olanda. E nel 2006, l’anno azzurro di Lippi, sempre nei quarti con la Francia di (only you) Zizou.

A Italia ‘90, il ct Lazaroni impiegò addirittura il battitore libero: Mauro Galvao. Peggio di un adulterio. Oggi è un Brasile vicino alla tradizione del «jogo bonito»: equilibrato, affilato. Con Pelé sempre nel cuore, come ribadito dai bandieroni. La cronaca conta, la storia pesa. E pensa.

Della festa, egli dice, anch’io son parte

Roberto Beccantini5 dicembre 2022

Diario mondiale, quindicesima puntata. Mi ritorni in mente, freddo come sei. Nella finale di Coppa dei Campioni del 1986, Helmut Ducadam li parò tutti, quattro su quattro, e così la Steaua, «ferma» a due, prevalse comunque sul Barcellona dopo lo 0-0 di Siviglia. Dominik Livakovic, più casto, ne neutralizza tre su quattro, e dal momento che i colleghi – Vlasic, Brozovic, Pasalic – tre su quattro li realizzano, ai quarti va la Croazia.

Lotteria o no, i rigori restano un viaggio freudiano nel sistema nervoso dell’uomo. Al 120’, quando le gambe sono tronchi e il fiato corto, subentrano e decidono la mira, i nervi, i riflessi, tante cose, non solo lo sghignazzare degli dei annoiati.

Livakovic diventa, così, il piccolo, grande eroe di una partita che le reti di Maeda, in mischia, e di Perisic, di testa, avevano consegnato a un 1-1 di basso livello: meglio il Giappone in avvio, un po’ meglio la Croazia alla distanza. Il ct Dalic, a un certo punto, aveva tolto sia Modric sia Perisic, uno dei più carichi. Pensavo a un errore prospettico, in vista dei penalty. Il destino aveva altri disegni. I calcoli e la paura, che sempre s’intrufolano nel pancione delle sfide secche, hanno scortato le squadre ai supplementari, e da lì alla sparatoria dal dischetto. Livaja colpiva il palo, dei samurai segnava solo Asano; non Minamino, neppure Mitoma e manco Yoshida. «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi», ammoniva Brecht. Vero. Talvolta, però, sono utili. E allora teniamoci il portiere di Saba, rovesciandone il sentimento e la morale: «Della festa – egli dice – anch’io son parte». E pazienza se ai nippo erano venuti gli alluci molli.

Kylian ne va plus. «Maestrini» in cattedra

Roberto Beccantini4 dicembre 2022

Diario mondiale, quattordicesima puntata. Leo Messi nell’Argentina. Kylian Mbappé nella Francia. Lassù, dove osano le aquile, è il Mondiale dei fuoriclasse. Per ora. I fuoriclasse assoluti, però: non i «predestinati» allattati e svezzati dalla propaganda. La Pulce ne ha 35, il Lampo 24 tra poco (il 20 dicembre). In attesa delle ultime verità, e volontà, di Cristiano, 38 a febbraio, Mbappé ha indirizzato e timbrato Francia-Polonia 3-1. Una Francia normalissima e una Polonia un po’ meno melafacciosotto dell’ultima. Un po’ meno, sì, ma non troppo. Al ct Michniewicz l’oscar della fifa (effe minuscola).

Les joueurs, les joueurs. Dunque: dopo che Giroud si era mangiato un gol, idem la ditta Zielinski & Kaminski (con tre tiri e tre parate: di Lloris, di Theo, di Varane), il centravanti dettava il lancio a Mbappé che lo serviva «di violino». Kiwior non coglieva l’attimo, Olivier sì. Poi calma piatta fino al raddoppio: Polska in avanti, Griezmann in versione stopper (ripeto: stopper. Con Deschamps, non con Deseccetera) spazzava l’area innescando il contropiede (coraggio). Giroud ignorava Dembélé – in crescendo, come Rabiot – e serviva Mbappé. Il destro era un jab di Muhammad Ali, e Szczesny-Foreman aveva esaurito la scorta dei miracoli. Quindi ancora Kylian: altra sventola, nell’altro angolo. Cinque reti sulle nove dei bleus, capo-cannoniere. Tramontava, la sfida, su un rigore varista, per mani-comio di Upamecano,
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