Ballando sopra le stelle. Il Brasile si mangia la Corea del Sud in un tempo e poi danza di rendita: gattone, non più ghepardo. Nei quarti, avrà la Croazia. Prendete il carnevale di Rio e trasferitelo a Doha. Quattro a uno: Vinicius, Neymar (al rientro) su rigore, Richarlison (di azione, e che azione!), Paquetà (al volo). Musica, maestri. Ognuno al suo posto con il suo strumento: anche Alisson, quando i rivali lo stuzzicano. E chi non segna, come Raphinha e Casemiro, Thiago Silva e Danilo, o ci va vicino o impedisce che ci vadano i rivali.
Seung Ho salva l’onore degli asiatici, difeso ai limiti del possibile. Così si gioca solo in paradiso, direbbero a Bologna. Triangoli avvolgenti, spazi decorati e di rado intasati, quel senso di gioia che, nei momenti d’ispirazione, restituisce il «futebol» alla strada e agli oratori, là dove il confine tra schiappa e campione era concetto vago. Si riveriva chi portava il pallone. E chi dribblava, si sentiva il mondo in tasca. Dietro le reti, «a zona», le nonne e le mamme vegliavano sulle tibie.
Il Brasile non vince il titolo dal 2002, dall’edizione che si tenne in Corea del Sud e Giappone. Era, quella, l’epoca di Ronaldo il fenomeno e di Rivaldo, di Ronaldinho e di Roberto Carlos. Rime baciate e palle incatenate. Cinque titoli, il massimo. Uno in più di Germania e Italia. In Russia, nel 2018, uscì nei quarti per mano del Belgio. Nel 2014, in casa, venne travolto in semifinale dalla Germania (1-7, addirittura). Nel 2010, pagò ancora nei quarti, con l’Olanda. E nel 2006, l’anno azzurro di Lippi, sempre nei quarti con la Francia di (only you) Zizou.
A Italia ‘90, il ct Lazaroni impiegò addirittura il battitore libero: Mauro Galvao. Peggio di un adulterio. Oggi è un Brasile vicino alla tradizione del «jogo bonito»: equilibrato, affilato. Con Pelé sempre nel cuore, come ribadito dai bandieroni. La cronaca conta, la storia pesa. E pensa.