Da Diego a Leo, adesso sì

Roberto Beccantini18 dicembre 2022

Da Diego a Leo. E’ una staffetta, non un esproprio. Regale e poi sofferta, all’improvviso, quando sembrava che il traguardo fosse lì, a un dribbling, e l’avversario fuori da tutto, non solo dalla partita. L’Argentina è campione del mondo per la terza volta, e se ha battuto la Francia «solo» ai rigori lo deve al quarto d’ora di popolarità caro ad Andy Warhol che ha invaso Kylian Mbappé.

Non sempre il calcio regala epiloghi così spasmodici, verdetti così meravigliosamente ambigui, trame che premiano i geni (Messi) e i fuoriclasse (Mbappé) ma non dimenticano gli altri, meno famosi ma non meno preziosi. Penso a Montiel, che un rigore procura e uno, quello decisivo, realizza; penso a Kolo Muani, che potrebbe violentare il destino proprio al 138’ o giù di lì e invece sbatte sulla trave di un portiere, Emiliano Martinez, un altro che sa uscire dall’ombra quando serve; e alla lotteria dei penalty servirà ancora.

Il bello è che per 80 minuti non c’era stata partita. La stava dominando l’Argentina. Con la Pulce che pennellava, con Di Maria recuperato ai suoi livelli, con De Paul che seminava Rabiot, con Romero e Otamendi che frustavano i pigri bracconieri di Deschamps. Una sciocchezza di Dembélé su Di Maria offriva a Messi un rigorino comodo, il quinto in sette partite (poteri forti, direbbero in Italia). Il 2-0 scaturiva da un contropiede folgorante, con il capitano a orientarne il senso sino all’assist di Mac Allister e al tocco di Di Maria, l’hombre delle finali.

Ecco. La Francia pascolava orrida e sterile. Ci si interrogava straniti: l’influenza? la banalità dei pronostici? i ricordi della Grandeur? Segni di vita, zero. Tanto che, già al 41’, Didier ricorreva al bisturi: fuori Giroud e Dembélé, dentro Kolo Muani e Thuram. Cominciava, la ripresa, come se nulla fosse successo.
Leggi tutto l’articolo…

Pochi ma buoni

Roberto Beccantini17 dicembre 2022

Diario mondiale, ventunesima puntata. Le finali per il terzo posto sono come le confessioni: racconti al destino i peccati commessi e/o i torti subiti e speri di trovare la forza e la concentrazione per espiare la penitenza. La Croazia l’ha trovata più del Marocco e così, dopo essere stata addirittura seconda nel 2018, ai tempi di Mandzukic, è di nuovo terza come nel 1998, all’epoca di Suker. Proprio i giocatori che le sono mancati, là davanti, per l’ultimo passo. Il più subdolo.

Onore al Marocco di Regragui, naturalmente, sempre in partita dal battesimo all’epilogo. Prima nazione africana a centrare le semifinali di un Mondiale. Nella fase a gironi era finita 0-0. Questa volta, 2-1. Testa di Gvardiol – da schema, su punizione – testa di Dari – sempre da punizione, ma non da schema – e arcobaleno di Orsic, subito titolare, la mossa di Dalic. Tutto nel primo tempo. Alla ripresa, falò di assestamento qua e là, fino alle occasioni di En-Nesyri, una parata da Livakovic (stranamente fermo, viceversa, sullo spiovente del pari) e l’altra a pelo di traversa, dopo uno stacco alla Cristiano.

La Croazia è un francobollo di nemmeno quattro milioni di abitanti. Mai dimenticarlo. Le sono bastate due vittorie in sette partite per salire sul podio. Il basket che cedette al Dream Team di Air Jordan aveva Drazen Petrovic, il calcio oppone Luka Modric, 37 anni suonati e sonanti, la bussola che ogni boy scout, acerbo o navigato, vorrebbe avere. Occhio, inoltre, a Gvardiol, lo Zorro degli stopper. Ha fallito un esame solo: con Messi.

Del Marocco vi invito a ricordare l’assetto difensivo finché Aguerd e capitan Saiss hanno retto; poi Bounou, il portiere, Hakimi la freccia, Amrabat il lucchetto mobile, Ziyech e Boufal il dribbling, Ounahi delicato finisseur. Né miracolo né favola: un allenatore, una squadra.

Ciao, guerriero

Roberto Beccantini16 dicembre 2022

Ha combattuto fino all’ultimo, e non è solo un modo di dire. Lui, che a raccontar guerre, quelle vere, avrebbe potuto tenerci svegli per notti. Se n’è andato Sinisa Mihajlovic, giocatore forte e allenatore girotondo; ultima tappa, Bologna. Serbo e non servo, con gli spigoli che gli slavi si portano dentro, pronti a trasformarli in aculei, figlio di un tempo che non riusciamo a domare e dal quale, come dimostra l’aggressione della Russia all’Ucraina, preferiamo farci dondolare.

Da hombre qual era, fu lui stesso a dirci di cosa soffriva: di leucemia, porca miseria. Venne ricoverato al Sant’Orsola, tornò in panchina, lo ricordo al Bentegodi col berretto, la prima volta del «dopo», ricadde, risorse, fino a un esonero che sapeva di classifica ma anche di ospedale.

Aveva 53 anni. Uno di noi, Terzino, battitore libero, un sinistro che abbiamo decorato con aggettivi bellici, tanto per rimanere in tema: esplosivo, dinamitardo. Le sue punizioni erano cannonate nel senso letterale e letterario della parola. Legò il nome, la malizia e le risorse all’epoca d’oro della Stella Rossa di Belgrado, con la quale vinse la Coppa dei Campioni – a Bari, contro il Marsiglia – e la Coppa Intercontinentale, sempre nel 1991. In Italia, ha giocato per Roma, Sampdoria, Lazio e Inter, laureandosi campione con le aquile di Sven-Goran Eriksson, nel 2000, e con l’Inter, a tavolino, nel 2006. E poi, ancora con la Lazio, una Coppa delle Coppe, l’ultima della serie, nel 1999, e una Supercoppa d’Europa. Più una pila di coppe domestiche tra Lazio e Inter (fu spalla di Roberto Mancini).

Ha allenato Bologna, Catania, Fiorentina, Serbia, Sampdoria, Milan, Torino, Sporting Lisbona (nove giorni, record dei record), ancora Bologna. Entrò nel ballottaggio dei tecnici cui la Juventus
Leggi tutto l’articolo…