Marocco e Cristiano, storie contro

Roberto Beccantini10 dicembre 2022

Diario mondiale, diciottesima puntata. Il Marocco ha giocato con tutto, il Portogallo no. E così la nazionale di Walid Regragui (giù il cappello) porta l’Africa in semifinale per la prima volta. Camerun, Senegal e Ghana si erano fermati i quarti. E’ stata una partita epica, perché la sentenza coinvolge anche, e soprattutto, la fine di un re. Cristiano Ronaldo, prigioniero di un Ego che l’ha indotto a insozzare la coda di una carriera memorabile.

La trama l’hanno orientata i portieri: Diogo Costa, a farfalle sull’incornata ronaldesca di En-Nesyri; Bounou, straordinario su una lecca di Joao Felix e reattivo sull’ultimo sparo del marziano. Il capolavoro di Regragui parte dalla fase difensiva, forte anche in condizioni d’emergenza. Continua attraverso lo scudo di Amrabat, le volate di Hakimi, le geometrie di Ounahi, e culmina nei dribbling di Boufal, nella fantasia di Ziyech. Un gol preso in cinque gare: un’autorete, fra parentesi.

Verrà accusato, il ct rosso fuoco, di aver alzato un catenaccio da protervi occidentali. Specialmente nella ripresa. E allora? Gli dei ne hanno baciato il furore, la cazzimma, l’organizzazione: la traversa di Bruno Fernandes ne è stata sicario devoto. Il Marocco aveva già ingabbiato la Spagna, impedendole letteralmente di tirare. Con i portoghesi ha faticato un po’ di più, anche per il rosso a Cheddira (nel recupero), ma, in contropiede, avrebbe potuto addirittura chiuderla con Aboukhlal.

Gli ha dato una mano Fernando Santos, inserendo tardi Leao: più ancora di Cierre o Joao Cançelo, altri cambi in corsa, sarebbe stato prezioso nell’aprire il bunker dall’esterno. Male Bernando Silva, maluccio Joao Felix. E, pensando a Gonçalo Ramos e alla sua tripletta con la Svizzera: dura solo un attimo, la gloria. Quella di Cristiano, in compenso, è durata un ventennio. Il fatto che molti festeggiano, significa che ha lasciato un segno.

Un genio e una genialata

Roberto Beccantini9 dicembre 2022

Alla fine, il genio vince sulla genialata. Ai rigori, come nel 2014, tra risse e resse. Il genio di Leo Messi: passaggio visionario a Molina per il gol dell’1-0; rigore del 2-0, guadagnato da Acuna (pedatina di Dumfries). In mezzo, un bouquet di cosine «di sinistro». La genialata di Louis Van Gaal: non tanto la mossa, tardiva?, di passare dalla palla rasoterra alle torri, quanto la punizione del due pari al 101’. Secondo Liedholm gli schemi, provati in partita, riescono perfettamente in allenamento. Questo no, questo riesce subito. Sulla palla, Gakpo e Koopmeiners. Chi tira, chi non tira. Barriere, uomo-coccodrillo. L’atalantino finge la lecca e, viceversa, tocca dolce nel cuore dell’area, verso Weghorst, uno dei cambi, già autore dell’1-2. Il traliccio arpiona e bum.

Fin lì, pochi tiri (zero, i batavi), molta noia. Con Van Gaal costretto a correggersi coram populo e Scaloni lento nel leggere la nuova «geografia» della gara. Ai supplementari, avrei detto Orange. Invece sono stati gli argentini, soprattutto nel secondo, a premere. Era entrato Lau-Toro, e con lui Di Maria. Un paio di occasioni per l’interista e, proprio allo scadere, il palo di Enzo Fernandez. Mi ha ricordato il legno di Rensenbrink a Buenos Aires, nel ’78: avrebbe rimediato il destino, cinico e caro. I penalty impongono nervi d’acciaio, non solo centimetri sodali. Van Dijk parato, Messi (primo della lista) gol, Berghuis parato, Parades (la miccia del Bronx) gol, Koopmeiners gol, Montiel gol, Weghorst gol, Fernandez sbagliato, L. de Jong gol, di Lau-Toro la sentenza.

Podio: dopo Messi, i due terzini (Molina, Acuna), i due Martinez (il portiere, l’attaccante: non fosse altro che per la firma), Berghuis, devastante Attila di riserva, e F. de Jong.

Non un trattato di calcio, questo no. Se mai, la polpa di un giallo. Van Gaal esce imbattuto; la Pulce, già 4 gol, a uno da Mbappé, continua a segnare, a far segnare e sognare. I mendicanti di emozioni non chiedono altro.

La Jugoslavia del Sudamerica

Roberto Beccantini9 dicembre 2022

Diario mondiale, diciassettesima puntata. Devoti di Fusignano e nerd di Coverciano. Minestrari e cavialisti. Fanatici del tiki taka e maniaci del campanile. Tutti in piedi: con un tiro nello specchio, uno solo in 130’, la Croazia ha scortato il Brasile ai rigori e, come con i nippo, l’ha fregato. Tutti in piedi, non scherzo. La Croazia non arriva a 4 milioni di abitanti, eppure: terza nel 1998, seconda nel 2018. Il Brasile del «jogo bonito», esplosivo contro i coreani, torna a casa nei quarti: gli era già successo in Russia. A quanto mi date che Tite, colui che ballava il samba in panchina, verrà declassato da maestro a somaro? Girano quote interessanti.

La Croazia è la costola calcisticamente più raffinata di quella Jugoslavia che definimmo il Brasile d’Europa. Sarebbe il caso, e l’ora, di dare al Brasile della Jugoslavia del Sudamerica. E questo, al netto della propaganda, per il reiterato spreco di talento e le immancabili amnesie nei momenti topici.

La partita. Un western moscio, con sparatorie varie solo nella ripresa. Non nel primo tempo, controllato dalla banda Modric, con uno Juranovic, terzino destro, migliore per distacco, e un Pasalic, mossa segreta, di utilità estrema. Mancava, agli «scacchisti» di Dalic, un centravanti di peso: il Suker etichetta ‘98, il Mandzukic vendemmIa ‘18. Un tipo così. Ecco (anche) perché non risultano tiri in porta. Sì, il «fuoricampo» di Brozovic avrebbe potuto alterare la trama, ma si è perso nell’al di là di Doha. Nessuno, nessuno, nemmeno il destino. Tranne quello lì, di Petkovic, entrato per offrire palloni da asporto come un pizzaiolo annoiato.

Piano piano, o Brasil prendeva campo. E Livakovic, sempre lui, conquistava la «prima»
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