Il coraggio

Roberto Beccantini6 dicembre 2022

Per ora è «solo» un risultato: Portogallo-Svizzera 6-1. Ma ha tutta l’aria di diventare, anche, un confine. Come la vita e lo sport impongono, quando l’età incombe (presto saranno 38) e l’Ego sbrocca. Stravince il coraggio di Fernando Santos, così accigliato ed ermetico, spesso, da sembrare un personaggio di Pessoa. Fuori Cristiano Ronaldo, che tra United, arabi e scatti (di rabbia) ha la testa altrove. Lo sostituisce Gonçalo Ramos, centravanti ventunenne del Benfica. Un giovanotto di fame e coltello. Tre pere: la prima, con una sassata; la terza, di destrezza; la quarta, di scavetto. In mezzo, la zuccata di Pepe e la sventola di Guerreiro; in coda, il destro a giro di Leao, altro panchinaro di lusso (come Joao Cançelo).

E’ poi entrato, il marziano, per raccogliere gli spiccioli tiratigli dal ct e Pepe – 39 anni di duelli e randelli – gli ha lasciato la fascia di capitano. Le scelte competono al tecnico; la stima e il rispetto, a tutti. Grande Portogallo, dunque, sui livelli del Brasile «coreano». Immagino che Yakin si aspettasse Cristiano. In difesa, è passato da quattro a tre: peggio che andar di notte. Specialmente se alla vendemmia contribuiva persino Sommer. La rete di Akanji, uno stopper, pesava un rigo di giornale, forse meno.

Al concerto ha partecipato ogni singolo musicante: da Bernardo Silva (figuriamoci) a Joao Felix (finalmente), da Bruno Fernandes a William Carvalho. Di fronte a simili scarti è sempre complicato distinguere meriti e demeriti. Venivano, i lusitani, dalla loro piccola Corea. Gli svizzeri, dal romanzesco 3-2 alla Serbia. Di sicuro, non c’è titolare del Portogallo che non abbia dato il massimo pur di dribblare il processo che i Torquemada di domani, da sorteggiare a caso tra i leccatori di ieri, gli avrebbero intentato, «se».

Dunque: ultimo quarto, Marocco-Portogallo. Rosso fuoco.

Marocco, non il pensiero unico

Roberto Beccantini6 dicembre 2022

Dario mondiale, sedicesima puntata. La notizia, grossa, è il Marocco nei quarti. Mai successo. Squadra né antica né moderna: trasversale. Con un ct, Regragui, che gli ha inculcato geometrie di gamba e di cuore. Giocate come sapete, perché sapete come si gioca. Quattro partite, e un solo gol preso: su autorete, per giunta. L’ultima vittima è la Spagna delle «sartine». Ai rigori, come la Croazia con il Giappone. Bounou ne para due (a Soler, a Busquets) e a uno, quello di Sarabia, ci pensa il palo. Dicono che Unai Simon avesse un foglietto: tizio tira così, caio cosà. Ne ha beccato uno (Benoun). Sabiri, Ziyech e Hakimi, di cucchiaino, col cavolo che sbagliano. Morale: da 0-0 a 3-0.

Primo tempo, più Marocco. Secondo, solo Spagna. Ma sempre la stessa minestra. Falso nueve in avvio (Asensio o chi per lui), poi Morata dentro e una nuvola estenuante di tocchi e ritocchi, che alla Nasa di Coverciano celebrano ogni volta a champagne e dalle mie parti non proprio. Il pensiero forte costituisce una risorsa. Il pensiero unico sappiamo, nella storia, dove ci ha portato.

Il legno scheggiato da Sarabia al 123’ è un rimorso, non un rimpianto. Il Marocco badava al sodo. Vi raccomando l’eretismo podistico di Amrabat, i rammendi di Ounahi, lo stoicismo di capitan Saiss, le volate di Hakimi, i guizzi di Zieych, anche se da uno del suo talento ci si aspetta sempre la luna, e quel Boufal capace, per 45’, di mandare al manicomio Marcos Llorente. Nei supplementari, c’è stata gloria persino per Cheddira, bravo a cogliere l’attimo, non altrettanto nello sfruttarlo.

Non è una gara che ricorderemo per il livello tecnico. Se mai, per il discorso che facevo prima: neppure Pedri e Gavi possono permettersi di toreare a metà campo, se il tiro diventa una scocciatura. Ma è il giorno del Marocco. L’Africa batte un colpo.

Ballando sopra le stelle

Roberto Beccantini5 dicembre 2022

Ballando sopra le stelle. Il Brasile si mangia la Corea del Sud in un tempo e poi danza di rendita: gattone, non più ghepardo. Nei quarti, avrà la Croazia. Prendete il carnevale di Rio e trasferitelo a Doha. Quattro a uno: Vinicius, Neymar (al rientro) su rigore, Richarlison (di azione, e che azione!), Paquetà (al volo). Musica, maestri. Ognuno al suo posto con il suo strumento: anche Alisson, quando i rivali lo stuzzicano. E chi non segna, come Raphinha e Casemiro, Thiago Silva e Danilo, o ci va vicino o impedisce che ci vadano i rivali.

Seung Ho salva l’onore degli asiatici, difeso ai limiti del possibile. Così si gioca solo in paradiso, direbbero a Bologna. Triangoli avvolgenti, spazi decorati e di rado intasati, quel senso di gioia che, nei momenti d’ispirazione, restituisce il «futebol» alla strada e agli oratori, là dove il confine tra schiappa e campione era concetto vago. Si riveriva chi portava il pallone. E chi dribblava, si sentiva il mondo in tasca. Dietro le reti, «a zona», le nonne e le mamme vegliavano sulle tibie.

Il Brasile non vince il titolo dal 2002, dall’edizione che si tenne in Corea del Sud e Giappone. Era, quella, l’epoca di Ronaldo il fenomeno e di Rivaldo, di Ronaldinho e di Roberto Carlos. Rime baciate e palle incatenate. Cinque titoli, il massimo. Uno in più di Germania e Italia. In Russia, nel 2018, uscì nei quarti per mano del Belgio. Nel 2014, in casa, venne travolto in semifinale dalla Germania (1-7, addirittura). Nel 2010, pagò ancora nei quarti, con l’Olanda. E nel 2006, l’anno azzurro di Lippi, sempre nei quarti con la Francia di (only you) Zizou.

A Italia ‘90, il ct Lazaroni impiegò addirittura il battitore libero: Mauro Galvao. Peggio di un adulterio. Oggi è un Brasile vicino alla tradizione del «jogo bonito»: equilibrato, affilato. Con Pelé sempre nel cuore, come ribadito dai bandieroni. La cronaca conta, la storia pesa. E pensa.