Comincio io: il Cagliari non è il Porto. Continuate voi: in Europa è diverso, la Juventus non vince la Champions dal 1996. Noiosi. Dopodiché, la partita. L’ha risolta una tripletta di Cristiano, colui che, dandole le spalle, l’aveva tradita martedì scorso. Sassata di testa, rigore di destro, sassata di sinistro. In mezzo, sullo 0-1, una pedata alle guance dell’uomo Cragno così plateale e così pericolosa da giallo immediato e scuse automatiche. Il dibattito è aperto: era da rosso? Per me, no. L’ho appena scritto. Sotto a chi tocca, a patto di non dire che era da arancione: una vigliaccata.
Semplici aveva rimpiazzato Di Francesco. Sette punti in tre gare. E la salvezza non più lontana come, un volta, Gigi Riva dall’isola. Pirlo, lui, si è inventato un 4-2-4 tendente al 4-4-2, con Kulu e Chiesa ali, Cristiano e Morata al centro, più Rabiot e Danilo a farsi il mazzo in mezzo (scusate la cacofonia). Un inno all’avanti popolo, una serenata al «giuoco» verticale e affilato.
Morale della favola: palla al piede, e ad avversari sbilanciati, grandi spazi e grandi contropiedi per moltiplicare i pani e i pesci. Un progetto stuzzicante, di respiro europeo. Palla agli altri, triboli non lievi. Come ha confermato la ripresa, che Nainggolan si è caricato sulla cresta. Il gol di Simeone è stato un cerino dal quale Joao Pedro, Marin e Godin non sono riusciti a ricavare le fiamme necessarie per bruciare lo scarto. Le staffette di Semplici e Pirlo hanno accompagnato l’ordalia verso un epilogo che mi sarei aspettato, ebbene sì, più travagliato. Non poteva non calare, Madama, e difatti è calata. Però il risultato, almeno questa volta, era in cassaforte. La vittoria coincide con la reazione che la Juventus «doveva» a sé stessa. Nulla di nuovo sotto il sole (più o meno). La zona Champions è meno vaga. Il resto, si vedrà .