Questo è uno spazio riservato ai giovani, d’età e di spirito. Gli argomenti sono liberi. Un solo limite: ogni articolo non deve superare le 30 righe. Naturalmente, non ci sono vincoli alla fantasia. Una commissione, da me presieduta e da me composta, premierà di settimana in settimana, con l’onore di un aggettivo, il “manufatto migliore” (come direbbe Emma Marcegaglia).
Scrivete, scrivete: qualcosa resterà. E magari anche qualcuno.
Ho letto la lettera di addio ai tifosi e al calcio di Cesare Prandelli. Nei confronti di Prandelli ho sempre provato una sorta di affetto, anche perchè giocava mediano, ruolo da me prediletto, nella Juve. Lo so, Ligabue interista ha decantato le gesta del ruolo, mica il gobbo Ramazzotti, ma tant’è. Racconto un aneddoto, noioso, bypassare pure la lettura. Estate 1981, Juventus campione di Italia, che strano, Prandelli in quella stagione aveva giocato molto, era quasi titolare, e fu ospite ad un cena di un Juventus club di zona alla quale partecipai. Lo stesso giorno la Juventus aveva ufficializzato l’acquisto di Bonini, che per ruolo andava a sovrapporsi a Cesare. Un muso lungo a quella cena che non finiva più. Ci scambiai due parole, io avevo appena 17 anni. E 17 anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più (questa è di un romanista, decisamente giornataccia…). Ho sempre seguito con attenzione la sua carriera di allenatore, sperando che prima o poi arrivasse alla Juve, e nel 2005 ci fu vicinissimo. Ho tifato visceralmente contro da allenatore dei viola, ma sempre con uno sguardo di affetto nei suoi confronti, perchè la sua umanità, il suo sguardo, ed anche la sua storia personale, mi hanno sempre colpito. Poi la Nazionale, la finale agli Europei, un calcio di quelli che piacciono a me, concreti, che non significa aridi e poi, a parer mio, l’incomprensibile ambizione di recuperare le teste irrecuperabilmente bacate di Balotelli e Cassano ai Mondiali in Brasile. Disfatta e da quel giorno, anche come allenatore non si è più ripreso. E dalla sua lettera di addio emerge tutto il malessere interiore che sta provando, come uomo. Fedor ci ha scritto paginate. Caro Cesare, se ho interpretato bene, ti dico solo che da quel tipo di malessere si esce con un “catenaccio” di altri tempi, non con la vacuità del tiki taka. Fino alla fine, forza Juventus.
Juan Cuadrado
Difficile che il suo nome venga pronunciato nella lista dei fuoriclasse, addirittura, all’inizio della stagione, si fatica a trovarlo sui fogli sportivi nella formazione tipo della Juve prossima ventura.
Difficile che venga preso sul serio. Forse perché il sorriso brilla costante sulla sua faccia buffa e simpatica, perché crescere orfano di padre in un quartiere malfamato del Caribe colombiano gli permette di apprezzare pienamente la gioia di fare per mestiere il giocatore di calcio professionista.
Eppure Juan Guillermo Cuadrado è uno dei giocatori più importanti della seconda parte di questo ciclo bianconero straordinario.
Dal suo approdo juventino nel 2015 si ricordano parecchi gol decisivi e belli, importanti e ignoranti: da quelli ormai proverbiali agli sgoccioli del derby con il Torino – si è ripetuto anche quest’anno – che diventano il trampolino di lancio per risolvere la stagione, ai gol d’autore in Champions League, dal primo, stupendo quanto inutile, nella rimonta interrotta dell’Allianz Arena (2016 Bayern-Juventus 4-2), fino al ricamo del sinistro a giro nel pareggio a casa dell’Atletico Madrid lo scorso anno.
Tuttavia non si deve ai gol o, almeno, non solo ai gol, per quanto determinanti, l’apporto fondamentale di Cuadrado nell’economia di gioco della Juventus, ancor più di questa nuova creatura di Pirlo, apprendista stregone. La presenza del colombiano, infatti permette una soluzione di uscita in costruzione alternativa alla via centrale, sia direttamente con l’appoggio in fascia, sia indirettamente, con la liberazione dello spazio opposto, per l’obbligo, da parte degli avversari, di seguirne i movimenti e le potenziali avanzate.
Quando è in buona, e capita spesso, Cuadrado è l’uomo in più in ogni reparto in cui gli capita di transitare: difensore reattivo e propositivo, centrocampista capace di allargarsi come di dettare l’appoggio a supporto della mezzala, attaccante in grado di saltare l’uomo e mettere traversoni sempre invitanti per le punte che si inseriscono o seguono l’azione.
Ancora di più: Cuadrado è il termometro, la cartina di tornasole, che permette di valutare quanto la Juventus sia una grande squadra, di respiro e prospettiva europei. Perché sarebbe facile schierare il colombiano banalmente all’ala, coperto da un terzino bloccato; invece il coraggio, la follia, la logica di schierarlo (e di poterlo schierare, grazie alle sue qualità) come terzino di spinta rendono la Juventus vicina e affine alle squadre che in campo internazionale lasciano il segno e Cuadrado accanto ai Dani Alves, Marcelo, Lahm.
Higuain farewell
È stato uno dei più grandi giocatori normali senza saper essere il più normale dei grandi giocatori, sempre frenato da un occhio troppo buono per essere davvero quello della tigre.
La naturale eleganza di tocco e la gentilezza dello sguardo ne facevano un prototipo di juventino da sempre: arrivò con due anni di ritardo e troppo carico di cartellino ed aspettative; ci fece esultare e recriminare; ci portò due scudetti e Cardiff, gioia e tragedia, prima di essere accantonato in favore di un prodotto finito non meno costoso e, però, roboticamente perfetto.
La nemesi di Gonzalo, Cristiano Ronaldo, specchio e miraggio, già palesatasi negli anni di Madrid, si è ripresentata in tutto il suo splendore e la sua terribile efficacia (seppure, finora, non concretamente migliorativa dei risultati bianconeri), e il bandolero stanco ha cercato fortune in altri lidi e rivalse tra le mura amiche. Nulla, però, ha potuto riaccendere la scintilla nel cuore e negli occhi, i fianchi si sono fatti pesanti e le movenze rallentate.
Ha fatto in tempo ancora ad infilzare, all’alba della scorsa interminabile stagione, Inter e Napoli, conficcando un paio di chiodi alla “cassa scudetto 2020″, e a farci vedere, al di là del palcoscenico e dell’avversario, uno dei più barocchi e splendidi ricami si possano immaginare su un campo di calcio per segnare una rete (Juventus-Udinese di Coppa Italia).
Lo ricorderemo con gioia e rimpianto, nella reciproca convinzione di aver fatto e dato tutto, e di non aver sfiorato l’abbastanza, mancando il dito per toccare il cielo.
Coraggio, ci sono posti peggiori di Miami per avere rimpianti.
Damiano carissimo, buon giorno. Che bella sorpresa. Formidabile quel giorno, a Trento… Grazie per essersi ricordato di Gianfranco Civolani. Ne ho scritto sulla mia pagina di “Facebook”, testimonianza ripresa oggi da Tuttosport e Corriere dello Sport-Stadio. Se ha problemi a reperire il pezzo, mi scriva a roberto.beccantini@fastwebnet.it. Glielo invio volentieri. Se capita dalle parti di Milano, mi faccia un fischio.
Grazie ancora e un mondo di auguri.
Buongiorno “mitico Beck” (mi permetto di apostrofarla nello stesso modo in cui l’ho conosciuta attraverso l’irrinunciabile rubrica sul GS), ho appena appreso la tragica notizia della scomparsa di Gianfranco Civolani, il “Civ”, una figura tanto influente e rilevante nel panorama sportivo quanto impunemente poco nota a molti dei miei coetanei che, per motivi anagrafici (ho da poco festeggiato la maggior età…) non hanno potuto fruire dell’eredità giornalistica lasciataci dal suo concittadino. Caro signor Beccantini, ho avuto l’enorme piacere di conoscerla personalmente poco meno di un mese addietro al Festival dello Sport di Trento (spero il nome Damiano le dica qualcosa…), ed ho ancora impresso nella mente l’espressione dei suoi occhi nel momento in cui, ripercorrendo la sua carriera giornalistica su mia specifica richiesta, le sue labbra hanno pronunciato quel nome a lei visibilmente caro, sintomo di un rapporto esclusivo e che ben pochi sarebbero in grado di delineare, se non per l’appunto le parti coinvolte. Rendendomi conto di averle già occupato sin troppo tempo, giungo al punto del mio discorso e al motivo per cui le scrivo: non ho dubbi che ciò che sto per dire fosse già nelle sue intenzioni, ma, tanto per non lasciare spazio a malintesi, credo vivamente che un suo articolo alla memoria del “Civ”, una sorta di epitaffio a quanto egli abbia rappresentato nel mondo del giornalismo italiano, sia il modo migliore per permettere a quella cerchia di sportivi ed appassionati di cui sopra, e in particolar modo a quella fetta di ragazzi come me, il cui sogno è quello di ripercorrere le gesta di figure come la sua e quella di Civolani, ultimi superstiti di una categoria che vede il “giornalismo come una passione, e non come un lavoro” (queste poche parole sono ciò che custodisco con più cura del nostro incontro)…
Spero che questo mio desiderio possa essere accontentato, in quanto ritengo che essere la persona più adatta a ricoprire questo onere prima che onore.
La ringrazio per lo spazio concessomi, e le rinnovo la speranza di poterla incontrare nuovamente.
Con affetta ed infinita stima,
Damiano da Trento
VAR VIA DI QUI!
D’un tratto, il timpano riceve una voce proveniente da una stanza, e il direttore di gara sa che, da quell’istante, è prigioniero degli sguardi dei giocatori, degli allenatori, del pubblico, delle telecamere, del ticchettio dei tasti sul computer, dell’inchiostro delle biro sui taccuini. Dinanzi, dietro e sopra di lui, le labbra si congiungono, l’agitamento delle bandiere svanisce e le sciarpe attanagliano il collo.
Di fronte alla mini-televisione, con i fotogrammi e i filmati che, da molteplici angolature, acchiappano la sua attenzione ed esasperano la sua tensione, le pupille dell’arbitro, per minuti o – raramente – per secondi, si dilatano per appurare se ha peccato o ha schivato l’errore. Il fischietto, strumento impositore di ordine e scatenatore, in alcuni casi, di collera, già scalfito dal quadriennio della «goal-line technology», immette un timbro fiacco nel momento in cui la tecnologia intima all’umanità il mutamento della scelta precedente.
Ora, il direttore di gara si sente sopraffatto, il suo istinto si è sottomesso al review, e depredato della sua autorità. Perciò, a volte, desiste dall’attuazione di una sentenza inoppugnabile emessa dal «sistema VAR», cosicché il fischio, come prima dello sdoganamento della tecnologia sul prato, possa udirsi fortemente.
Gentile Cartesio, si figuri. E’ il minimo, con “pazienti” come lei (per fortuna siete in pochi, se no dovrei chiudere la Clinica…). Fatico anch’io a star dietro all’indotto economico-finanziario che ha accerchiato e imprigionato lo spirito del calcio. Non restano che le partite. Una volta erano tutto il quadro, oggi poco più di una cornice.
Grazie a Lei, Gentilissimo Beck, per lo spazio che concede.
Il cuore, poi ci sarebbero anche considerazioni tecniche a supporto, ma questo era lo spazio della nostalgia e del sogno. Un tipo di calcio che non è l’evoluzione di quello di una volta, è proprio un’altra cosa.
Tutti ci si prova a correr dietro a conti economici o scienze applicate, per stare al passo con i tempi, per fare i moderni, per scoprire poi che il vero spettacolo è riuscire a incanalare in un gioco armonico la forza e l’entusiasmo di giovani atleti capaci ancora di divertirsi.
Gentile Cartesio, buon giorno. La capisco e la ringrazio: un po’ di cuore non guasta mai.
LA FOTO
C’è uno scatto bellissimo, catturato ad immortalare l’esultanza di Morata, il 15 Settembre del 2015.
A Manchester, i bianconeri, sotto di un gol con il City nella ripresa, ribaltano il risultato con Mandzukic e Alvarito, e sbancano l’Etihad Stadium, a coronamento di una delle più gagliarde partite della Juventus in Champions League (poi sappiamo che non si fu in grado nemmeno di vincere il girone pur superando per due volte i Citizens e si incappò nel sorteggio nefasto contro i Bavaresi allora di Pep Guardiola).
Quella foto, per qualche tempo, è stata lo sfondo del desktop sul computer del lavoro e il salvaschermo di quello di casa, e poi mi è rimasta nella mente e nel cuore.
Morata, con il nove nero, in scivolata e posa da pistolero, è accompagnato, nella stessa scenografia improvvisata, da Paulo Dybala, ancora col 21, e da Paul Pogba. Sullo sfondo li sta raggiungendo, nella condivisione della gioia, il sorriso schietto di Cuadrado.
Per un lungo momento ho sperato che quella pura e limpida immagine di gioventù potesse rappresentare il radioso futuro della mia squadra “del cuore”, quella Juventus che ricordo dominare e cadere, soffrire e trionfare, dai tempi di Bobbygol fin giù a Paro e Marchisio, orgogliosi e malinconici, a Rimini e Crotone.
Da quella foto la Squadra e la Società non si sono certo fermate, sono arrivati altri giocatori, altre vittorie, si sono aperti, come dicono quelli che ne sanno, nuovi “modelli di business”, ma ho un’irrazionale impressione che si sia interrotto un percorso e si sia intrapresa un’altra strada. E ho l’impressione di riconoscermi di meno.
Fondare idealmente su quei “quattro moschettieri” (due ora ormai ai margini, due nemmeno più vestono i nostri colori) voleva dire scommettere sulla gioventù (che sarebbe poi il significato di Juventus), sulla crescita graduale costruita giorno per giorno, artigianalmente; magari sarebbe stata costruzione più lenta, magari non avrebbe raggiunto la vetta (ma pure ora siamo lontani), ma avrebbe avuto un altro valore, un’autenticità in cui sarebbe stato più bello riconoscermi (e magari farsi riconoscere dal mondo).
La scelta è stata differente: comprare un prodotto finito “già pronto”. Si è tentato con i 90 milioni di Gonzalo, ma l’articolo era fallato, troppo legato ancora all’emozione e all’umanità. E allora lo si aliena, senza troppo rimpianto, per provare un nuovo prodotto finito: 100 milioni subito e 300 in cinque anni – garanzia di efficienza.
Non si sa ancora come andrà a finire, se davvero sacrificare freschezza e gioventù avrà pagato. Forse serviva mescolare meglio le cose e capire che la chiave per inserire Cristiano era farlo tornare per le strade di Madeira, a divertirsi, piuttosto che confezionargli un’astronave Real di plastica.