Questo è uno spazio riservato ai giovani, d’età e di spirito. Gli argomenti sono liberi. Un solo limite: ogni articolo non deve superare le 30 righe. Naturalmente, non ci sono vincoli alla fantasia. Una commissione, da me presieduta e da me composta, premierà di settimana in settimana, con l’onore di un aggettivo, il “manufatto migliore” (come direbbe Emma Marcegaglia).
Scrivete, scrivete: qualcosa resterà. E magari anche qualcuno.
@ MAC PHISTO
mai pensato ad un sano, definitivo, conclusivo silenzio?
Caro Agnelli
cerca di dare una calmata ai tuoi, perlomeno in privato con loro. Se la juve si lascia succhiare nella spirale del complottismo rischia di mandare a scatafascio tutto. Non è come lo scorso anno dove tutto più o meno girava bene, ma la squadra è forte. Meglio stare zitti e pedalare. Il buon Giovanni Agnelli sarebbe stato d’accordo, o no?
I CONTRO-SQUALLORI
Ci risiamo. Per il secondo anno consecutivo, allo stadium, il catorcio Genoa ci toglie punti tra pochissime luci e molti dubbi e demeriti nostri.
Oltre alla figura meschina che ha fatto Marotta davanti ai giornalisti dando adito a future dannose polemiche e magari a deferimenti federali (parole poco furbe e pronunciate subito dopo lo sfogo a caldo, seppure argomentato e non propriamente ottuso, come si vuol far credere, del mister Conte)… la morale del messaggio dopo questo gennaio insoddisfacente è dettata da due principali fattori.
1) Bisogna imparare ancora a essere grandi. Grande squadra (ancora non lo siamo), grandi tifosi (alcuni di noi non lo sono ancora, nelle critiche affrettate o non ponderate, ma solo viscerali). Una grande squadra vince anche le partite scomode da vincere, se si passa in vantaggio a fatica, poi si cerca con rabbia il 2-0 prima di infilarsi in giochini o in mollezze varie. I grandi tifosi, ragionando con obiettività, non possono proclamare uno scudetto già vinto a ottobre/novembre per manifesta superiorità (o mediocrità degli avversari) e poi buttare tutto a mare nel catastrofismo a fine gennaio.
2) Non distogliamo lo sguardo dagli ampi demeriti. Sarebbe più opportuno che allenatore e giocatori, invece di incazzarsi troppo dopo alcune boiate arbitrali (ci sta a caldo, ma l’eccesso bisogna evitarlo, brutte scene che poi si rivelano a effetto boomerang), pensassero a come ovviare una volta per tutte il grande e più evidente difetto che ci si porta dietro da troppo e che rende difficile il delicato passaggio da squadra che può vincere ma anche casualmente a grande squadra abituata a vincere certe gare complicate. Bisogna imparare a chiudere le gare, a giocare con manovre d’attacco meno prevedibili, palla a terra e cercando anche di sfondare in area avversaria, bisogna prendere delle contromisure soprattutto se si fatica terribilmente a rompere le difese avversarie quando troppo chiuse. Inutile regalare goleade per la platea contro l’Udinese se poi in questo sciagurato gennaio abbiamo lasciato due punti a Parma (seppure ci poteva stare un 1-1 in quella trasferta), altrettanti col Genoa e almeno uno con la Samp, pur giocando una delle peggiori prove.
Gentile MacPhisto, la sua analisi e’ ben articolata.
LA SCONFITTA MENO CONTIANA
Si sono perse 3 partite in un anno e mezzo, finora. Due meritate, una casuale e strana (la prima in assoluto dopo uno scudetto da imbattuti, contro i nerazzurri interisti). L’ultima, soprattutto, sconcertante e che lascia un senso quasi di nausea per come eravamo abituati ad ammirare la Juventus, più che altro perchè ricorda certe dabbedaggini, certe cadute, un po’ stupide e un po’ cercate, di anni recenti che sembrano preludio di crisi di risultati a cui nessuno vuole tornare, perchè noi juventini, si sa, odiamo perdere sempre. Sembrava di vedere la squinternata Juventus dei settimi posti, domenica pomeriggio, nel secondo tempo, che i più non hanno esitato a definire disastroso.
Tralasciando assenti, turn-over giusto o no, modulo tattico, forma fisica mai al top alla ripresa dopo la pausa natalizia, si tornava dalla stessa pausa con tanti allenamenti e si credeva ragionevolmente di poter riprendere a vincere come si era concluso l’anno 2012. Si è invece perso (male) giocando a pallone solo per un tempo (stranamente il primo e non il secondo, rispetto alla media generale), in superiorità numerica e di un golletto, per scarsa solita incisività e cattiveria si era rimasti solo 1-0, poi alcuni giocatori psicologicamente sono ritornati in campo (dopo la sosta piena di complimenti e record, oserei dire) molli di mentalità e gambe, convinti comunque di averla vinta e di poter gestire l’esiguo vantaggio: puntualmente si è subita la prima pappina per colpa della papera del numero 1 al mondo (piaccia o no), ci si è spaventati, si è andati in tilt stranamente, qualche uomo nuovo e non rodato (Peluso, colpa di leggerezza del mister) e subito si è passati in svantaggio addirittura, per poi cercare di ribaltare il risultato in modo ancora più disordinato e infruttuoso, senza costrutto e lucidità generale e rischiando di rompere seriamente un centrocampista importante (Marchisio). Si è perso, 3 punti buttati, contro una squadra inferiore ma allenata da un tecnico finalmente scafato e serio, con un attaccante giovane che ti piazza la doppietta con due tiri in porta e un regalo e mezzo del nostro portiere. Io però ci andrei cauto con i funerali (non ottimista, ma cauto), lo chiamerei incidente di percorso, piccolo esame fallito per accrescere o consolidare classifica (peraltro ancora buona) e coscienza di grande squadra che non deve fallire certe cose, anche quando non è in giornata ispirata (eufemismo) o le gambe/testa girano poco. La Juve sta ricominciando ad esserlo ma il percorso è sempre lungo e difficile, non è come uno schiocco di dita. Scivoloni, presunzione irritante, lune storte, giocatori al di sotto delle proprie possibilità o mezze delusioni, sono sempre dietro l’angolo per una squadra che deve tornare a essere sempre grande con certa continuità. Ma in fondo si cresce anche da certe sconfitte. E in fondo si cresce in una sola maniera: vincendo la prossima. Questo è compito delle grandi squadre.
Gentile Davide, struggente affresco.
Ringrazio per gli auguri di buon anno che ricambio volentieri. Leo
X Leoncini:
Grazie mille, mi fa piacere ti sia piaciuto.
Buon anno a te e a tutti gli scrittori di questo “spazio”
“Ciao Sghira” e lui, voltandosi lentamente, ti rispondeva con un cenno della mano accompagnato dalla sua inconfondibile e inimitabile risata. Sghira era uno di quei mattocchi di provincia che con la sola presenza danno colore a quelle città di provincia ripiegate su se stesse, adagiate nella tranquillità della propria opulenza, dove la vita scorre lentamente scandita da abitudini consolidate. Incontrarlo dava l’occasione per una battuta, una risata e così molti esorcizzavano il naturale imbarazzo che la sua follia alcolica – non si sapeva che cosa lo avesse indotto ad affidare la speranza, a riporre la fiducia nella bottiglia, lei era la sua confidente, la sua amica, l’unica amante rimastagli –suscitava. A me invece incuriosiva. Sentivo che in lui non c’era cattiveria; la voce impastata, gli occhi lucidi, il passo lento e incerto palesavano dolcezza. Viveva in una perenne dimensione fanciullesca e ciò lo rendeva un compagno ideale per giocare, soprattutto a pallone. Spesso si presentava nella bottega artigiana di mio padre facendomi capire che voleva giocare. Allora si correva nel cortile retrostante, io a tirare le mie bordate, lui a cercare di pararle. Sembrava che i suoi movimenti riprendessero magicamente elasticità e plasticità. Non era un caso che si mettesse in porta, piuttosto una scelta naturale, istintiva: Sghira aveva giocato come portiere nell’A.C. Legnano. Un pomeriggio arrivò con un pallone di cuoio nuovo di zecca. Mio padre gli chiese dove l’avesse preso. Lui, incurante della domanda, non distogliendo il suo dolce sguardo dalla mia persona, disse semplicemente: “E’ per Giuseppe, il mio amico”. Al momento pensai solo a ricevere nelle mie mani il regalo e correre a giocarvi. Non sapevo che non l’avrei più visto. Sparì e inutilmente lo cercai all’osteria che frequentava abitualmente e a casa sua. Sembrava essersi volatilizzato, i vicini sapevano nulla. Mi rassegnai e, con cinismo fanciullesco, non ci pensai più. Tempo dopo, casualmente, seppi che Sghira era morto dopo essere stato raccolto su un marciapiede della periferia legnanese dove, in una sera d’estate, si era accasciato sfinito. La bottiglia aveva ultimato il suo lavoro. Piansi e pensai al nostro ultimo incontro. Presi in mano il pallone da lui regalatomi: quanta generosità, quanto bisogno di dare e ricevere affetto in quel dono. Capii che fra noi era nata una strana e complice amicizia, fatta di poche conversazioni e molti silenzi, sguardi, sorrisi, che aveva dato un tocco di unicità alla mia fanciullezza.
Ottimo, Raffaele.