Qui si parla di libri. Il titolo l’ho rubacchiato a Umberto Eco e al suo “Costruire il nemico”. Libri di avventura, di amore, di sport, di calcio, di calci. Cronache di storie e storie di cronache. Nessun genere è pre-cluso o post-cluso. I libri sono mondi che ci rendono grandi o piccoli in base a come li navighiamo.
Chi comincia?
Quando nel 1969 passarono le immagini dello sbarco sulla Luna, mio zio, il fratello di mio padre disse subito che non era possibile quella “cosa lì”. Era un tipo molto testardo, cresciuto tra i poderi del padre, che erano tanti, e forse per questo rimase quasi analfabeta. Fu convinto assertore della teoria “anticopernicana”. Mi diceva: la Luna è come una palla, e in una palla, tu ti puoi posare nella parte superiore, al limite sui lati, ma mai nella parte di sotto, non avresti come agganciarti. Per lui lo sbarco sulla Luna, almeno dalle immagini che venivano date, era avvenuto nella parte bassa, quella che noi dalla Terra alzando la testa vedevamo. Naturalmente, la teoria era sballata a più non posso, tuttavia credo che il suo intuito non lo ha tradito.
A proposito,Lex,stanno dando un gran film in Tv(rai3):Capricorn one(Eliott Gould).Io vedendo questo film mi pongo molti dubbi sullo sbarco lunare del 1969/21/07…..Ogni volta che vedo questo film sono più scettico!!Mi chiedo come mai più nessuno c ‘e’ sbarcato in 44 anni…mah!
Capuozzo piace anche a me,però sembra la Madonna di Fatima.Meglio molto meglio Domenico Jannacone,parlo di Tv!A proposito,Lex,sentito le ultime su Lady D;nuove rivelazioni riapertura di una nuova inchiesta!!Come mai?Il 20 settembre esce il film,quale miglior pubblicità!!!!!Non ti sto ad elencare altre situazioni simili….che cambino registro..
Gentile Lex, Toni Capuozzo mi piace molto ma troppo lungo, troppo lungo: una lenzuolata. Bella l’idea, questa sì, di come prepararsi l’ultima cena in base a un menu che ripercorre la carriera, la vita. Lo assolvo per la tartare: l’adoro.
In questo articolo (che vi invito a leggere) la cucina è quasi una metafora della vita/carriera
dell’autore. Tra l’altro ci sono anche alcune pietanze di luoghi da cui provengono alcuni ospiti della Clinica….buona lettura!
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Questo non è un racconto, ma una storia vera. Anzi, è la compilazione fedele alla realtà, ma fantastica, di un menù ideale. Dovessi apparecchiarmi un’ultima cena, la organizzerei così, fedele al disordine della vita, irrispettosa dei canoni e legata a una regola: i sapori, con gli odori, e specie del cibo, hanno una forza che manca alle parole, e perfino alle immagini, ti riportano con prepotenza inaspettata al giorno i cui entrasti in un negozio, alla prima volta che assaggiasti qualcosa, ai viaggi e ai ritorni a casa, al trascorrere delle stagioni e degli anni.
Vorrei davanti a me una grande tavola, come una platea, o piuttosto un palco, e nel silenzio che precede lo spettacolo sentirei l’eco delle posate, il fruscio del vino versato, il tintinnare dei bicchieri, il brusio delle chiacchiere tra migliaia di commensali, le risate, i sussurri, e persino gli sguardi farebbero un loro rumore, come i gesti, e il loro richiamo inevitabile, quando succede, all’amore e al sesso. O anche, solo, il flusso dei pensieri davanti a una cena da solo, che spegne ogni rumore e, banditi i giornali e la televisione accesa nel ristorante da commessi viaggiatori, si concede il menù impossibile, disteso su una tovaglia a quadretti bianchi e blu, che sa di bucato.
Vorrei naturalmente molte bottiglie, ma principalmente di vino rosso, e soprattutto friulano, e specie di cabernet franc, e destinato non a calici esili e gonfi, ma a quei bicchieri che una volta si chiamavano da cucina. Mi ricordano una vecchia osteria, in collina, dove andavo a sedermi a un tavolino sbilenco, pieghevole, appoggiato alla ringhiera di ferro. Davanti a me avevo la pianura nell’ora silenziosa del pomeriggio estivo. Alle mie spalle il muro di pietra dell’osteria, con il pergolato e una scia di verderame che sembrava una stella cometa, sopra alla porta da cui si affacciava l’oste, che portava senza fretta la bottiglia e due bicchieri, uno per me e uno per lui. Era un vino rosso che sporcava il vetro, e legava le parole con cui cercavo di ripetere i versi di Omar Khayyam, una quartina dedicata al vino e alle donne. L’avevo imparata a memoria compitandola davanti a una lapide, sulla cima di una collina lì accanto. Sotto alla lapide si diceva fossero sepolte le bottiglie più care a un eccentrico dei dintorni, che aveva per tempo pensato a provvedere a una sepoltura di se stesso nel cimitero locale, e delle sue bottiglie in cima alla collina.
Vorrei che ci fosse anche una bottiglia di vino rosato, un vino pugliese che riprende l’etichetta di un bourbon americano, e non è più il migliore dei rosati, ma ha il merito di avermi convinto che quel vino trasparente non è cosa solo per signore e pasticcini, ma ti può far compagnia, la bottiglia appannata dal vapore, sulla tavola bianca dell’estate. E’ il mio pegno alla mia parte meridionale, con la salsa di pomodoro e la pasta, con il basilico e l’aglio, il limone e le acciughe.
Ci sarebbe un angolo della tavola dedicato ai salami e ai formaggi, e ciotole di ceramica bianca e ondulata per il radicchio, a ricordarmi la terra in cui sono nato. E qualche piatto di confine, per non dimenticare la babele gastronomica famigliare in cui sono cresciuto, gnocchi di susine e capitone di Natale, sarde in saor e jota, panzerotti e sardoni impanati. Pochi dolci, che non ne sono ghiotto. Forse basterebbe una gubana, ma annaffiata di grappa, e nessun superalcolico al di fuori di quella, tranne un bicchiere di rum guatemalteco, per riandare ai miei anni di America latina.
Il resto è viaggio: appunto, per antipasto quelle pupusas che si mangiavano su un’altura da cui si vedeva, la notte, tutta la città di San Salvador, ed era un posto da innamorati in cui andavo con la fidanzata del posto, che si chiamava Rebecca, e mi diceva sorridendo che quel posto veniva chiamato paradiso, in riferimento agli innamorati, alle stradine buie lì attorno, e all’inferno della guerra civile che stava lì sotto, tenuto in vita da riso e fagioli, e foglie di gran turco riempite di pasta di mais. Da laggiù verrebbe la frutta, alla fine, e specie avocados e papaja e piccole banane dolcissime e manghi, come quelli che cadevano maturi dall’enorme albero della pensione in cui vissi per molto tempo, facendo un tonfo nell’acqua della piscina ormai putrida, perché nessuno più ne aveva cura.
Comincerei con una zuppa di lenticchie, come quella che mangio sempre a Gerusalemme, lenticchie chiare e spruzzate di limone, alla maniera araba. Certo, tornerei a pescare in un antipasto fatto di hummus e labneh, baba ghanoug e tabulè, usando il pane arabo non lievitato per accoglierli, e tradendo il vino per qualche bicchiere di arak diluito nell’acqua. Mangerei questo e parlerei, nel silenzio, del cuscus di pesce dell’ebreo marocchino che lo prepara ogni venerdì nel suo ristorante vicino al municipio, della inconsulta wienerschnitzel con cui inauguro ogni prima cena all’American Colony di Gerusalemme, dell’amatriciana che mi serviva Angelo, l’ebreo romano, ogni volta che ne avessi nostalgia. E poi avrei da raccontare del pollo alla brace di Beit Jala, o del ristorante che adesso sorge a Betlemme proprio accanto al muro di divisione, e il cui proprietario mi ha dato da mangiare durante Ramadan e scontri, come se fosse il suo modo di fare la pace, o di combattere. Sul muro alto qualche metro davanti al ristorante qualcuno ha disegnato con realismo efficace, una ragnatela di crepe, ed ha scritto “Nulla dura per sempre”.
Non mi basterebbe una portata di pesce, perché conservo un ricordo incancellabile delle piccole triglie che mangiavo ad Amman, ogni volta che si chiudeva il ritorno dall’Irak, un viaggio di un giorno nel deserto dei banditi, spesso disteso sul sedile dietro, così che i malintenzionati pensavano che l’autista fosse solo, e l’auto vuota di prede. Le chiamano Sultan Ibrahim, le triglie di scoglio, ad Amman, ed erano, ancora in mezzo al deserto, un annuncio di mare, un sapore di vacanza. E parlerei di nuovo, raccontando dei polli congelati della dependance dell’ambasciata italiana a Baghdad, abbandonata da tutti tranne che dal custode curdo, dove ritornavamo a dormire la sera, io e l’armeno Garo, dopo aver attraversato una città rischiarata solo dagli incendi, e dopo aver filmato tutto il giorno i saccheggi, gente che usciva dai ministeri con sedie e ventilatori. Garo preparava due arak, e poi tornava in cucina con due polli rigidi saccheggiati a nostra volta nel freezer di emergenza che stava nel bunker dell’ambasciata, e cucinava pollo all’armena, con rosmarino e patate. In cambio ho insegnato a Garo dove si mangiano i migliori falafel del medio oriente, in una viuzza di Amman, e il bar al primo piano dove approntano il miglior narghilè. In realtà non siamo mai stati abbastanza coraggiosi da mangiare il pesce arrosto del Tigri, perché sul fiume, in quei giorni, scendevano i corpi .
Ma bando ai ricordi troppo brutti. Neanche la carne mi basta, perché vorrei almeno un assaggio della tartare che preparano all’albergo Moskva di Belgrado, cameriere avanti con gli anni, scarpe ortopediche e braccia robuste, e mangi mentre i vetri tremano per qualche bomba lontana, accompagnato da una bottiglia di Vranac che soppianta i vini friulani. Non bastasse, proprio sotto all’albergo c’è una botteguccia dove preparano, infilata in un panino per essere mangiata in piedi, per strada, la miglior plieskavica dei Balcani, una volta che l’hai mangiata non potrai più accontentarti, se non per accontentare tuo figlio, di un hamburger (faccio salvi gli hot dog caldi, per strada, a New York, preparati da pakistani infreddoliti, e con loro certi wurstel tedeschi, come una scusa per mangiare senape francese). La carne è debole, anche a tavola, e non può rinunciare ai cevapcici con le cipolle, bevendo quella specie di yoghurt acido che si chiama kefir, in qualche taverna della Bascarsija, a Sarajevo. O, sulla strada del ritorno, a metà strada, il ristorante davanti al quale si fermano le corriere, a Jablanica, con vista sul ponte della battaglia, sul tavolo dove gli autisti mangiano gratis, e l’agnello che gira sullo spiedo che ruota grazie a una cascatella d’acqua, lenta e sempre uguale a se stessa. Il pesce tornava sulla costa, a Spalato, in quella bottega sul porto dove servivano calamari fritti su vassoi di cartone identici a quelli per le paste dell’infanzia, e un vino bianco aspro come i versanti di pietra dei Balcani che si fermavano sul mare.
Cambierei pane, ogni tanto, io che sono cresciuto in un tempo in cui le madri dicevano: “mangia il pane”, perché non ci si poteva riempire di solo salame o formaggio, e che sono invecchiato in cui le mogli ti dicono “lascia stare il pane, sei già grasso”. Del nan afghano, ma caldo, e non importa se stai vedendo come lo preparano, mani sporche che lo sbattono sulle pareti del forno, l’odore è buono. Del resto hai sfidato la sorte, una volta, mangiando per strada un gelato afghano, con il gelatiere che ti guardava incredulo, e gli amici stupiti, il mondo è strano, da noi le cose fatte a mano valgono di più, laggiù le cose fatte a mano sono sospette. E ogni tanto vorrei una tazza di thè, un thè con i pinoli come quello che servono a Tunisi, e vi racconterei di semplici scatolette di tonno – ma un buon tonno – condite con la harissa, a bruciare il palato. Parlerei, molto, anche da solo, e andrei dal formaggio molle con la marmellata di Buenos Aires all’halibut con lo zucchero mangiato in Alaska, ma mi perderei spesso, perché ricordo il tempo in cui in Argentina si intuiva, nella tarda mattinata, dove c’era un cantiere edile ancor prima di scorgerne le impalcature, per il profumo dell’asado dei muratori, quando il pane costava più della carne. E mi perderei tra i crostacei del Cile e quelli di Cape Cod, la pasta con le polpette degli italoamericani di Boston e le polpette di alligatore delle Everglades, la carne di canguro o quella di armadillo, e le tante pietanze senza nome di una pancia senza memoria. Vi direi del caviale nascosto dentro le scatole di metallo per le pellicole, dei pezzi di parmigiano portati a connazionali sparsi per il mondo con la religiosità di un lembo di terra patria, delle cozze crude mangiate al tempo del colera, delle ciliegie della ferrovia pugliese e delle putie siciliane tra finocchi in pinzimoni e tumme primo sale, del cibo conosciuto in prigione e di quello nelle caserme, nelle tavole dei missionari o in quelle degli ambasciatori, in tende o sulle navi. Dei bicchieri azzurri di Herat o del vino in scodella che bevevo a Piacenza, militare di leva, e dei canederli universitari, del prosciutto di zampa negra spagnolo e del vino nero basco, delle aringhe inglesi mangiate al mattino e della renna svedese con i mirtilli alla sera, della shawarma giordana e del kebab di Istanbul, del cibo di Timor Est o di Singapore, della bottarga della Mauritania e dello stufato eritreo raccolto con l’injera, del the alla menta marocchino o del latte di mandorle siciliano, delle ostriche alla Central Station di New York o su una spiaggia normanda, di ananas dell’Honduras e di chicharrones cubani, di datteri algerini e the alla menta, “nana” si dice, marocchino, di baguette francesi e pita araba, di formaggi dei frati belgi o di goulash ungherese . Ho vissuto, e mangiato, e qualche volta ho cucinato. Allargherei le narici come in un mercato delle spezie, zafferano e cardamomo, ginseng e curry di Zanzibar, e allargherei le braccia come un Redentore sul Pan di Zucchero, per abbracciare tutte le portate. E, se fossi riuscito a restare sobrio, o forse proprio per non esservi riuscito, mi lascerei andare a una confessione, che è una specie di nostalgia per i panini dell’infanzia: come sono stato felice dopo il giorno in cui non avevo mangiato, o mangiato male, qualunque cosa mi trovassi nel piatto era la più buona del mondo, e il solo gesto di infilzare qualcosa o di raccoglierla era il gesto più pacifico e beneaugurante del mondo, la fine di ogni odio, un presepe di odori e sapori, e gambe allungate sotto il tavolo. Un tavolo di cibi semplici, una cucina onesta e povera, ma curiosa e avventuriera. Già, chi sta seduto a questa tavolata pantagruelica, a quest’ultima cena senza traditori, a questo convivio immemore e ricordabile? Questa è un’altra storia, un’altra volta, ma i commensali assomiglierebbero alla cucina.
Toni Capuozzo.
Auguri al Taxi Driver Al Capone….:-))
Ragazzi Robert DeNiro compie 70 Anni!!!Buon Compleanno Bob!
staremo a vedere Lorenzo…… più che colpevolezza certa, che abbiano sparato non c’è dubbio comunque, non mi scandalizza che li vogliano processare…………. poi la pena sarebbe bene che la scontassero in Italia………
EC.Leggerti(non leggerli).
Ciao Ezio,Lovre e’ stato cancellato ed ora sono come mamma m’ha fatto!Spero presto lo siano tutti(riconoscibili),sparare dal minareto e col cappuccio e’ facile!In quanto alla:tua teoria,essa presume una colpevolezza certa;invece di recente hanno appurato che alcuni spari siano partiti da un cargo greco!Detto cargo pare si sia allontanato prima dell’arrivo della polizia indiana,comunque io aspetterei a dare il tutto per certo!Grazie per la risposta e’ sempre un piacere leggerli.