A piedi caldi nel bunker

Roberto Beccantini14 ottobre 2024

In una Udine blindatissima, sprazzi di luna park: Italia-Israele 4-1. La classifica Fifa allontana la ola (noi decimi, loro settantanovesimi), ma i risultati – il nostro e quello della Francia – ci avvicinano ai quarti della Nations League, lascito della bulimia di Platini.

Retegui su rigorino, per un pestoncino a Tonali; poi Di Lorenzo, di testa, su punizione di Raspadori (canta Napoli); gol olimpico, direttamente da calcio d’angolo, di Abu Fani, già a segno a Budapest, complice un blocco a Vicario; quindi Frattesi, su assist di Dimarco, non senza il contributo di Glazer (provvidenziale, se non prodigioso, in almeno tre occasioni); e infine ancora il capitano, Di Lorenzo, su invito di Udogie. Di Lorenzo, autore di una doppietta, era stato tra i peggiori dell’Europeo. E anche al Parco, aveva (ri)cominciato annaspando dietro Barcola.

La palla a Udogie l’aveva fornita Daniel Maldini, figlio di Paolo, che proprio a Udine – il 20 gennaio 1985 – aveva esordito in serie A con il Milan, e nipote di Cesare. Tu chiamale, se vuoi, emozioni. E dinastie. C’è stata gloria anche per Lucca, «enfant du pays». Tutti bene, da Di Lorenzo, migliore in campo, a Retegui, retaggio del Mancio; da Calafiori, «braccetto» che spesso e volentieri diventa incursore, a Tonali; da Bastoni a Dimarco e Cambiaso. Tutti, tranne Fagioli: distratto e impacciato. Avrà altre occasioni: le sfrutti. Sostituto di Ricci, il titolare della regia, da Ricci è stato sostituito.

Da otto gare prendiamo almeno un gol. E sino al 72’ si stava sul 2-1. A fronte di un paio di pericoli corsi, ci eravamo mangiati di tutto, con molti. Spalletti ha rimesso la squadra al centro del villaggio. Schema base (3-5-1-1) e, dopo la Svizzera, tre vittorie e un pari: quello, in dieci, con il Belgio. Adesso, però, calma.

Sua maestà l’episodio

Roberto Beccantini10 ottobre 2024

Il ricordo di Totò, sincero e toccante. Poi, per 38’, lo spumante della cantina Spalletti. Fior di brindisi in transizione e, già al 2’, gol di Cambiaso su servizio di Dimarco e dopo 18 tocchi (!). In mezzo, la regia e i rammendi di Ricci e una superiorità da k.o tecnico. Al 24’, il raddoppio: gran palla di Dimarco a Cambiaso – da sinistra a destra: e dai – Casteels ne respinge la lecca ma si arrende al tapin di Retegui.

Il Belgio è 6° nella classifica Fifa, l’Italia 10a. Tedesco – a naso, più tattico che stratega (direbbe l’Arrigo) – non ci capisce un tubo. Ciao ciao generazione dorata, o quel che l’è, De Bruyne ai box, Lukaku a Posillipo, Doku terzino. Nuvole di fumo.

Improvviso, al 38’, l’episodio. Un lancio un po’ così di Bastoni, Theate anticipa Pellegrini, sorpreso; Pellegrini lo bracca e lo trancia da dietro. Giallo. Var. Rosso. E punizione: schema da radical-chic e De Cuyper infila la cruna dell’ago. Brutto periodo, per Lorenzo. I fischi dei romanisti, e questa tacchettata qua, figlia anche, forse, di quelle bordate là. E dire che, da complice arrapato, aveva scortato l’azione rompi-ghiaccio.

La sfida dell’Olimpico cambia, totalmente. Gli azzurri, fin lì dominanti, devono inventarsi una notte di sofferenza. Per fortuna, gli ex diavoli sono grigi e monotoni. Alla ripresa, comunque, Tedesco, bontà sua, sposta Doku a sinistra, e i suoi dribbling, se non altro, creano tensione. Ci sono poi i calci piazzati e, da un corner e dall’ennesima sponda aerea di Faes (ripeto: l’ennesima), polli che non siamo altro incassiamo il 2-2 di Trossard.

Le staffette danno ossigeno agli opliti «decimati». Il ct calabro, in compenso, toglie Doku: contento lui. Arbitro mediocre, ma se manca un rigore manca al Belgio (Bastoni su Openda). Primi eravamo, in Nations League, e primi restiamo. Erano gli undici del Parco. Avanti così.

In ritiro di una sartina

Roberto Beccantini8 ottobre 2024

Ecco. Se Johan Neeskens era il campo largo, Andrés Iniesta è stato la zolla benedetta. A 40 anni, ha annunciato il ritiro a reti e tiki-taka unificati. Don Andrés. L’illusionista. Uno dei nani della pregiata sartoria Masia, l’atelier del Barça: lui, Xavi, Leo Messi. Più Sergio Busquets, che nano non era. Nativo di Fuentealbilla, nel cuore de La Mancha, Spagna profonda. Ne ha 12, quando gli emissari del Barça lo individuano. E’ piccolo, timido, introverso.

Non sarà cronaca, la sua. Sarà storia. Dalla cintola in su, capace di tutto, per tutti. Il più eclettico dei centrocampisti: mezzala, mediano, rifinitore e pure esterno, se le circostanze lo richiedono. Puyol e Victor Valdés erano i suoi custodi: poco angeli, a volte.

Iniesta. «El Messi de las sombras»: meno visibile, ma sempre genio. Non così regista come Xavi e Busquets, ma più indovino (nel predire il certo, nell’anticipare l’incerto); ha un dribbling stretto che sa di ricamo, musicale, e una dote che solo ai Grandi è riconosciuta: alzare e abbassare il ritmo. Dentro di sé e intorno a sé. Dello spartito e della partita. Lo lanciò Louis Van Gaal, lo hanno consacrato Luis Aragones e Vicente Del Bosque in Nazionale, Frank Rijkaard e Pep Guardiola, naturalmente, al Camp Nou.

Ha fatto segnare, molto. Ha fatto sognare, moltissimi. E se il gol non era il fine, ce ne sono un paio che non dimenticherà, che non dimenticheremo: il primo, al 93’ di Chelsea-Barcellona 1-1, semifinale-bis di Champions 2009, non senza stridore di denti e di Drogba (contro il povero Øvrebø), spunto che in pratica inaugurò l’era del Pep; il secondo, a Johannesburg 2010,
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