Georgia on my mind

Roberto Beccantini22 agosto 2022

Cominciano a fioccare i pareggi (già cinque, tre dei quali per 0-0). L’1-1 di Atalanta-Milan è stato battaglia, con fasi di pressing feroce e bolge dantesche. Il risultato lo hanno orientato le fasi difensive. Di Leao rammento i brindisi d’avvio e poco altro. Di Rebic, solo polvere: né di stelle né da sparo. Di Zapata, sponde e strappi lontani dal fronte. Di Giroud, nel finale, qualche rimbalzo e niente più.

Più occasioni, il Diavolo. E, al termine, un armistizio sostanzialmente corretto. Gasp ha plasmato una Dea sempre guerriera, senza però la fantasia che le garantivano il Papu e Ilicic. Il «venduto» Malinovskyi («venduto» perché così sembrava persino alla moglie) ha spaccato l’equilibrio. Bennacer, bussola preziosa, l’ha ingessato con un sinistro filante. Rientrava Tonali: non al massimo e sprecone sotto porta, quando De Ketelaere, che Pioli continua a dosare, gliel’aveva spalancata. Bravo Musso. E Lookman, per i pochi spiccioli che ha raccolto. Atalanta e Milan offrono un’idea di squadra, con marcature a pressione e terzini-fionda, che tale rimane sempre e comunque, anche nei momenti più grami. E occhio: la Dea non fa le coppe.

In attesa di Roma-Cremonese e Sampdoria-Juventus, comandano Inter e Napoli che, dopo il Verona (5-2 al Bentegodi), ha demolito il Monza (4-0 al Maradona). Di slancio, non proprio a livelli sarriani ma neppure troppo lontani. Su tutto e su tutti, Kvaratskhelia: doppietta, di destro a giro (alla Insigne) e di sinistro. Sono già tre in due partite. E’ un georgiano di 21 anni che, da noi, sembra Garrincha, così come Koulibaly in Premier, non sembra più un marziano. A segno anche Osimhen e Kim, lo stopperone misterioso. Senza trascurare il movimiento di Lobotka. Nel torneo scorso, a Spalletti di successi iniziali non ne bastarono otto. Questo è un campionato strano perché spezzato: calma. Che non significa nascondersi.

Metà Toro, tanta Inter. E Berardi

Roberto Beccantini20 agosto 2022

La «partita» era Torino-Lazio. Finisce 0-0, senza una trama che scomodi l’epica. Nel recupero palla e sino al limite dell’area, il Toro è una piccola Atalanta. Dopo, non più. Non a caso, Juric è stato, al Genoa, devoto sacrestano del Gasp. Per un’ora, il pressing granata non dà respiro agli avversari. Marca a uomo, il Toro, ma non come una volta, attorno al battitore libero: come si usa adesso, graffiando e mordendo ogni zolla, ogni polpaccio. E sempre in avanti, possibilmente.

E’ in attacco che il livello cala, un po’ perché Radonjic ha la mira storta, Vlasic è appena arrivato e Sanabria trova in Romagnoli e Patric carabinieri inflessibili. Compatta ma contratta, la Lazio di Sarri fatica a venirne fuori. Milinkovic-Savic, a differenza del fratello portiere, uno dei migliori, sarà uno dei peggiori. E se non segna Immobile, chi segna? Saranno proprio del capitano e del serbo, a Toro non più padrone, le (rare) occasioni. A Luis Alberto «C’era Guevara» ha riservato pochi spiccioli: contento lui.

A San Siro, l’Inter spazza via un fragile Spezia: 3-0. Lau-Toro, di controbalzo, su cross di Barella e sponda aerea di Lukaku; Calhanoglu di bisturi; e, a giochi fatti, Correa su assist di Dzeko. Le parate di Dragowski, la traversa di Lukaku e gli errori sotto porta hanno evitato che lo scarto assumesse dimensioni bibliche. Non era l’Inter dormigliona di Lecce, come ha documentato la spinta feroce di Dumfries e Dimarco. Certo, lo Spezia avrà tirato sì e no una volta. Troppa differenza: ma non solo millantata.

Se l’azione dell’1-0 interista è stata bella, bellissimo è stato il gol di Berardi in Sassuolo-Lecce 1-0. Uno smash mancino che, al di là della traiettoria e della posizione, mi ha ricordato lo Zizou di Glasgow. Destro ben piantato a terra e bum.

Di Maria oltre

Roberto Beccantini15 agosto 2022

Hanno vinto tutte, le grandi. Chi alla grande, chi più o meno. Un segnale al terzo stato. Stava palleggiando come nel giardino di casa, il Sassuolo, e lo Stadium cominciava a fischiettare, quando l’arbitro ha ordinato il cooling break. Narra la leggenda che il 3-0 sia nato lì, dalle dritte di Allegri. Subito il gol di Di Maria, con un sinistro strozzato; poi il rigore di Vlahovic, somma di due indizi (al pronti via, Muldur e Alex Sandro, quindi Ferrari e il serbo, incastratissimi). La squadra di Dionisi ha continuato il torello, ma ormai Di Maria – protagonista, infortunato y fatal – aveva svegliato Madama e se l’era presa. Siamo sempre lì: il tenore che dirige l’orchestra e non, come insegnava l’Arrigo, il contrario.

Giocava «libero d’attacco», il Fideo. Palla incollata, anche ciondolanti. Con McKennie mezzala, Alex Sandro pimpante (per un po’) e Cuadrado in versione parlamentare sotto elezioni (destra, sinistra, centro). Vlahovic invocava munizioni; gliele fornivano Di Maria e Danilo, le falliva di poco. Il Sassuolo si era reso pericoloso, nello scorcio pre time-out, con Defrel, Berardi (poca roba) e Ayhan. La Juventus viveva di campanili e contropiede: attenta, anche se non proprio ispirata. Era Di Maria, a 34 anni, la scintilla.

Alla ripresa, entrava il promesso sposo (Raspadori-Napoli), ma uno sgorbio di Ayhan propiziava l’assist dell’argentino per il destro di Vlahovic. Era il 51’: «mamma, butta la pasta», avrebbe strillato Dan. Ricapitolando: Di Maria, gol e assist; Vlahovic, doppietta. E, a ruota, un Bremer all’altezza e un Kostic che il loggione vorrebbe più ala che terzino. Piano piano, il Sassuolo si addormentava nel suo sterile tiki-taka, salvo un guizzo di Pinamonti sventato da Perin. Leggerino, bellino, spuntatino.

La scorsa stagione era finita 1-2. Buttarsi sul corpo della partita per scoprire
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