Bollicine contro il muro

Roberto Beccantini2 settembre 2021

Uno a uno. Come con la Spagna, come con gli inglesi. Il terzo consecutivo. Era la prima da campioni, 53 giorni dopo Wembley. A Firenze, avanti popolo. Non credo alla pancia piena, almeno per ora, e nemmeno ai serbatoi mezzo vuoti, per quanto lo fossero. E, sempre per ora, non penso neppure a un Mondiale in pericolo: domenica a Basilea, la Svizzera. Servirà di più, certo. Soprattutto a ridosso dell’area: e possibilmente dentro. I topi d’archivio sbandierano, giulivi, il 79% di possesso palla e i dieci corner a zero. Un’aggravante, replicano, isterici, i cultori del risultato purché respiri.

Ha ripreso, la Nazionale di Mancini, dal gioco che aveva seminato: per la cronaca, e per la storia, sono 35 partite utili consecutive, eguagliato il record di Spagna e Brasile. I bulgari si sono difesi a catenaccio e, bucati dal gran gol di Chiesa, hanno pareggiato con un lampo, uno solo: Despodov che si scrolla Florenzi, confuso, e A. Iliev che brucia Acerbi.

E allora? Abbiamo palleggiato fitto, con Jorginho e Verratti (specialmente), abbiamo creato abbastanza ma non troppo, splendido un controllo di Insigne, in corsa, su lancio di Bonucci (così così); sugli scudi, si scriveva una volta, il portiere Georgiev. Il ct ha ruotato Chiesa (a destra, come si permette?), Immobile, Insigne, poi Raspadori e Berardi. Sempre avanti, sempre sul pezzo, senza però la mira e la «cattiveria» che spesso, nelle bolge, fanno la differenza. Un dribbling in più, un flitrante in più: non era facile, anche se qualcosa di meglio mi sarei aspettato.

Frizzanti e distratti per un tempo, poi leziosi, quindi noiosi. Emerson Palmieri non è Spinazzola, Immobile non era l’Immobile dei nostri poligoni, Barella friggeva, nervoso, e l’ingresso di Lorenzo Pellegrini al 90’ non l’ho proprio capito: era la mezzala più ispirata di questo scorcio. Alla fine ci hanno fatto prigionieri. Tutti indietro: mai fidarsi delle «maggioranze» bulgare.

La prima volta

Roberto Beccantini1 settembre 2021

C’è sempre una prima volta. Mai avevo cambiato la griglia. Lo so, è un po’ vigliacco. Me lo suggerisce la fuga di Cristiano. Vero: la Juventus aveva perso lo scudetto anche con lui – e proprio la scorsa stagione – ma due su tre erano e rimangono una media che legittima i favori del pronostico. Con le attenuanti generiche concesse alla (o per la) «gavetta zero» di Pirlo. Meriti dell’Inter a parte. Meriti enormi.

Senza Cierre, la rosa della Juventus è più debole. Sempre forte, non la più forte. Allegri è un gran gestore, ma non so fino a che punto saprà essere scintilla. Nelle staffette, è cruciale l’ordine: da Sacchi a Capello, un trionfo; da Conte ad Allegri, idem. Siamo appena alla seconda, ma Conte-Inzaghi non mi sembra male. C’è poi la staffetta al contrario: Allegri-Sarri. Prima, cioè, la legna che ravviva il fuoco, poi il fiammifero. Per accenderne un altro. Peccato quel taglio brusco che cassò la svolta. Fra parentesi, con «C’era Guevara», Cierre toccò il suo massimo italiano (31 gol in 33 partite) e non impedì a Dybala di laurearsi miglior giocatore del torneo (2019-2020).

Colgo, dentro la Juventus, una confusione strana, di gruppo sparso, di frettolosi bivacchi. Da Marotta-Paratici a Arrivamaluccio-Cherubini. Con Nedved ancora qua, ma non proprio alla Vasco. Fra Elkann e Agnelli la Superlega persa ha lasciato il rumore degli sconfitti, che è peggio del rumore dei nemici.

Non ci sono soldi, e allora non mi scandalizzo per il mercato da 5. Locatelli mi piace, anche se farne il capro «salvatorio» mi sembra pericoloso. Resta il nodo del centrocampo, si apre un vuoto di una trentina di gol non più da fissare, ma da distribuire. Ci vorrebbe il Dybala che Allegri portò a 22 reti, il Dybala di Sarri o di Udine: non quello con l’Empoli. Penso a Bernardeschi:
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Morgan. E così sia

Roberto Beccantini31 agosto 2021

Eccone un altro, uno di quegli eroi che tali diventano per come si arrampicano sulla carriera, non i Laocoonte che si dimenano ma i serpenti che li avvinghiano. Francesco Morini detto Morgan: nome che rimanda alle atmosfere di Salgari, ad arrembaggi che ci venivano addosso ogni domenica, dalla curva o per transistor. Aveva 77 anni. Toscano, biondo, stopper. Dalla Sampdoria alla Juventus, dove piantò i rostri e diventò corsaro. La Juventus dei Settanta, quella di Boniperti e del Trap. La Signora di ferro.

Non era elegante come Bellugi, non segnò mai un gol neppure per sbaglio, era il cinque che marcava il nove. Ai suoi tempi, i difensori non erano semplici guardie del corpo: erano tatuaggi sui corpi dei centravanti. Si chiamassero Roberto Boninsegna, che poi ne fu compagno, o Gigi Riva, con il quale avrebbe ingaggiato duelli omerici, stretti stretti in un’estasi di furor.

Cinque scudetti, una Coppa Italia e la Coppa Uefa di Bilbao. Il Mondiale, triste e tristo del 1974, quello che Giovanni Arpino avrebbe poi romanzato in «Azzurro tenebra». L’area di rigore era il suo ring e la sua casa. Le televisione vi entrava con il pudore della castità che piaceva all’Italia democristiana di allora. Fu proprio Morgan a concepire o anticipare la moviola. Era il febbraio del ‘72, si giocava Juventus-Milan e le proteste di Bigon, dal campo, non commossero Lo Bello. Invitato alla «Domenica Sportiva», don Concetto visionò il filmato e si scusò, addirittura: se avessi avuto la moviola, avrei dato rigore. Lui, il tiranno di Siracusa.

Morini era sempre lì, padrone della scena e del ruolo, metà sceriffo e metà bandito, il ghigno del bello costretto a recitare il cattivo. Non lo sentivo da febbraio. Parlammo della sua Juve,
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