Grandi e Piccoli

Roberto Beccantini21 agosto 2021

Inter-Genoa 4-0. A proposito di staffette: da Conte-Allegri a Conte-Inzaghi. La butto lì, sicuro che i saggi sapranno farne tesoro. Ciò premesso, con San Siro mezzo pieno e il Genoa mezzo vuoto, campioni in scioltezza, da campioni. I maniaci delle bisettrici e delle palle scoperte avranno già colto le differenze. Beati loro. Nel mio piccolo, parto dal detto di Boniek: «Lukaku faceva reparto da solo, Dzeko ha bisogno di un reparto». Lo ha avuto. E lo ha accompagnato. Dalla conferma dei piatti della casa (testa di Skriniar) a un fraseggio elegante, come sul gol di Calhanoglu (the best). Non c’era Lau-Toro, squalificato. C’era Sensi, nano dagli alluci prensili. Lo aspetto. A gioco lungo, e squadre lunghissime, i cin-cin di Vidal e Dzeko, l’alticcio e il traliccio.

Torino-Atalanta 1-2. Muriel all’inizio (gran gol), Piccoli (classe 2001) nel recupero: in mischia, da bracconiere. In mezzo, ebbene sì, tanto Toro e poca Dea. Ben oltre il pari, carambolato, di Belotti, ossigeno e tritolo dalla panchina. Gasp ha pagato le assenze, troppe. Immagino i moccoli di Juric (in tribuna): proprio non meritavano di perdere, i granata, padroni della notte più di quanto fosse lecito illudersi. Piccoli, come il Gallo, era entrato: ma di sfuggita, lui. Visto da Bergamo, e pensando al pallore lunare e lunatico di Ilicic: gli scudetti si vincono anche così, con una botta di sedere, e non necessariamente strangolando gli avversari. Visto dal Toro: lunga è la strada, ma sembra proprio quella giusta.

Empoli-Lazio 1-3. Lo scarto è severo: più gioco la banda Andreazzoli, al netto dello squillo di Bandinelli; più giocate (Milinkovic-Savic, pareggio e assist per Lazzari) ed episodi (il rigore di un acerbo Vicario su Acerbi, trasformato da Immobile), il laboratorio del ritornante Sarri. A Coverciano non avranno gradito la fase di non possesso. Appunto: lasciatelo lavorare.

Grigliatina

Roberto Beccantini20 agosto 2021

Con il mercato che chiude a fine mese, azzardare una griglia ha poco senso. Si rischia di essere spiazzati dalla prossime mosse, da quel Cristiano, per esempio, che radio mercato indica tra color che son sospesi. Ma dal momento che proprio domani comincia il campionato dei campioni d’Europa, cedo.

1) Juventus; 2) Inter; 3) Milan; 4) Atalanta; 5) Napoli; 6) Roma; 7) Lazio; 8) Fiorentina; 9) Sassuolo; 10) Torino; 11) Sampdoria; 12) Cagliari; 13) Udinese; 14) Bologna; 15) Verona; 16) Genoa; 17) Empoli; 18) Spezia; 19) Salernitana; 20) Venezia.

Veniamo da una stagione epocale, l’Inter di Conte ha deposto la Juventus dei nove scudetti, ma Conte non c’è più, c’è Inzaghi, e non c’è più nemmeno Lukaku, c’è Dzeko. Manca, sulla carta, la squadra padrona. Dicono che sarà l’anno degli allenatori: è tornato Allegri chez Madama, è tornato soprattutto Mourinho, alla Roma, e poi Sarri alla Lazio, Spalletti a Napoli. Fissi, non più di un paio: Pioli e Gasp. La pole della Juventus è legata a Cierre: già così può succedere di tutto, figuriamoci senza.

Mi intriga la Fiorentina di Italiano, ma siamo sempre lì, che ne sarà di Vlahovic? Ventun anni e 21 reti lo scorso rodeo, tanto per rendere l’idea. Ci sono più portieri stranieri che italiani, e pure questo è un segno dei tempi: come la perdita, a zero, del migliore in assoluto, Donnarumma. C’è un nuovo designatore, Rocchi al posto di Rizzoli, Dazn ha sfrattato Sky, i cambi continuano a essere cinque, torna la gente negli stadi, le casse piangono e frignano come poppanti. Parigi è lontana, come una volta la Cina.

Era l’11 luglio, quando la nazione si unì attorno alla nazionale e mandò tutti a «coming Rome». Da domani, 21 agosto, ci si torna a dividere. «Ho commesso un sacco di stupidaggini che hanno dato buoni risultati e molte cose sagge che sono finite male», disse Winston Churchill. A modo suo, un «allenatore». Buon campionato.

Gerd, area condizionata

Roberto Beccantini15 agosto 2021

Si era perso, da anni, nei fumi della demenza. Gerd Muller, lui che aveva scelto una fetta di terra, l’area di rigore, per diventare «il» centravanti. Quello che, ai tempi in cui il posto era fisso anche nell’idea, aspettava il silenzio dell’attimo per trasformarlo in tuono. Una vita nel Bayern, grassoccio, sgraziato, sempre lì, in un posto che gli era casa e ufficio, funzione e missione: 730 gol in 788 partite, 68 gol in 62 con la Germania, pallone d’oro, campione del Mondo, campione d’Europa, 3 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale, 4 scudetti, 4 Coppe tedesche, capocannoniere ovunque e comunque.

E, naturalmente, Italiagermaniaquattroatre, 17 giugno 1970, allo stadio Azteca di Città del Messico, un gol rotolante a metà con Poletti, e la sgrullatina che scatenò il destino, già al dessert ma, evidentemente, ancora non sazio: Rivera che, vicino al palo, non intercetta e Albertosi che, se solo potesse, lo passarebbe per le armi. Invece no, qui piovono i ricordi: piatto destro proprio di Rivera, il condannato, e tutto il mondo, fedele al proverbio, fu Paese: il nostro.

Muller è cognome non meno comune di Rossi, in questi casi si ricorre al nome, Gerd, Paolo, Valentino. Ecco: Paolo, sì, aveva qualcosa di Gerd. Se Diego Maradona è stato il calcio, loro sono stati i momenti. E qui mi soccorre l’eterno Jim Morrison: «A volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo». Finì in Florida, incapace di vincere il «dopo», che per un fuoriclasse è stagione terribile, scommessa cialtrona. Esci da una reggia di cui possedevi le chiavi ed entri in un’avventura che, se le perdi, diventa una prigione.

Invisibile agli avversari, che pure ne annusavano i ferini agguati, si è fatto invisibile a sé stesso. Gerd Muller, 75 anni, il mestiere dell’ombra.