Alla lotteria di Cristiano

Roberto Beccantini2 maggio 2021

Nel giorno in cui, dopo nove anni di «regno», l’Inter le strappa lo scudetto, la Juventus salva la pelle alla lotteria di Cristiano. L’Udinese di Gotti stava meritatamente vincendo – di fisico, di cuore, di assoluta normalità – mentre Madama sembrava una Maria Antonietta scarmigliata e in fuga da sé stessa, non solo da Versailles. Le mancava di prendere gol da punizione battuta lestamente, come negli oratori di una volta, quando il più furbo calciava la palla fra la sottanona del prete bonario. Da De Paul a Molina, tutti un po’ così e Szczesny un po’ cosa.

Era il solito incipit dei soliti giocatori della solita Juventus del solito Pirlo, ormai nudi alla meta e non più in grado di trasformare il quarto posto in un forziere. Cristiano ha un’età per cui avrebbe bisogno di una squadra, e la Juventus una squadra che avrebbe bisogno del Cristiano giovane: troppo lontani, gli estremi, per toccarsi. L’area vuota (fino, almeno, all’ingresso di Morata), il carattere ancora di più e, come gioco, la caricatura del City guardiolesco: palla rigorosamente orizzontale e implacabilmente lenta e/o indietro. Con Dybala lontano dagli occhi e del cuore (dell’azione), con Cuadrado raddoppiato e, dunque, emarginato.

Ma perché, allora, Udinese uno Juventus due? Perché alla lotteria di Cristiano, d’improvviso, sono usciti due biglietti: il primo, su rigore per braccio largo di De Paul in barriera (De Paul, fin lì sultaneggiante); il secondo, di testa, su cross di Rabiot (cambio azzeccato, ma sì), complice uno Scuffet distratto, o comunque sorpreso.

E così Madama resta aggrappata alla tenda della zona Champions. Domenica, il Milan allo Stadium: ennesimo spareggio. Immagino, se non rientra Chiesa, la ressa attorno alla tombola di Cierre. Tirare subito i dadi di Kulusevski e Morata, no?

C’era una volta la pazza Inter

Roberto Beccantini2 maggio 2021

Era stata l’Inter, negli anni Trenta, a conquistare l’ultimo scudetto prima del quinquennio di Edoardo Agnelli. E’ l’Inter, ancora lei, ad aggiudicarsi il primo dopo il novennio del nipote Andrea. Quando finisce una dittatura, non sai mai cosa comincia. In questo caso, pensi di sapere cos’è finito, e perché.

Nella mia griglia di settembre l’Inter veniva subito dietro alla Juventus. Poi Atalanta, Milan, Napoli, Roma e Lazio. La Juventus è crollata sotto il peso delle scommesse aziendali (non solo Pirlo) e di un’altra Champions tradita. La Dea ha patito il canonico, tempestoso, rodaggio. Il Milan, la panchina corta. Il Napoli, un po’ gli infortuni e un po’ i complicati rapporti fra Gattuso e De Laurentiis. Le romane, i soliti alti e bassi di sentimenti e risentimenti.

L’Inter era rimasta al Triplete di Mourinho, alle coppe di Benitez e Leonardo. A un Moratti sazio, a un Thohir in transito. Fino, improvvisamente, ai cinesi di Suning, a una lontananza che spesso abbiamo definito canaglia. Fino a Beppe Marotta e Antonio Conte. La chiave di volta, e di svolta. Costole juventine in una società che viveva della pazzia raccontata dall’inno e dalla storia, il romanzo di Ronaldo il fenomeno, delle foglie morte di Mariolino Corso, del circo di Alvaro Recoba.

E’ il diciannovesimo titolo, tavolino compreso. Il quinto di Conte dopo i tre della Juventus e la Premier del Chelsea. Antonio è un martello. Ha trasformato il vuoto cosmico (e umiliante) della resa europea in un pieno di benzina. Si è corretto, ha bocciato promossi (Vidal, Kolarov) e promosso bocciati (Perisic, Eriksen); ha rinunziato all’idea fusignanista d’invasione, preferendole la dottrina allegrista di gestione. Ha avvicinato Lau-toro a Lukaku, ha ghigliottinato il trequartista e liberato il 3-5-2 con il quale, a Torino, aveva battezzato l’epopea juventina.


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Chiusi, vincevano: poi…

Roberto Beccantini29 aprile 2021

Dal 7-1 del 10 aprile 2007 (c’ero) al 6-2 del 29 aprile 2021. Dai quarti di Champions alle semifinali di Europa League. Da Totti a tutti Old Trafford continua a evocare incubi, streghe, sabba malefici. Quella sera, l’illusione dell’andata: 2-1. Questa, l’illusione del primo tempo: 2-1. Esaurite le coincidenze, passiamo all’analisi. D’accordo, Veretout, Pau Lopez e Spinazzola subito fuori combattimento e, così, tre cambi e tre slot in poco più di mezz’ora: iella cosmica. Anche perché da nessuno dei vice (Villar, Mirante, Bruno Peres) il povero Fonseca ha ricavato almeno un «pareggio»: a cominciare dal portiere.

Finché si è difesa, la Roma vinceva. Quando, alla ripresa, ha provato a rivaleggiare in corsa e destrezza, è crollata. A uno uno, sono scomparsi tutti: Karsdorp, che aveva provocato il mani-comio di Pogba; Pellegrini, che aveva trasformato il rigore e offerto il raddoppio a Dzeko; Mkhitaryan, la scintilla dei falò. Tutti. Fino a Diawara e Villar, sugheri in balìa di cavalloni da «Moby Dick», a Ibanez e Smalling, abbandonati all’uno contro uno.

Lo United di Solskjaer è un’orchestra dalla fase difensiva un po’ goliardica. Soprattutto in casa. L’ha ribadito. Ha però violini, tamburi e trombe che, se non bastano a suonare il City, bastano a cassare i sogni della settima del nostro campionato. E meno male che Rashford girava in folle. Su tutti e su tutto: Bruno Fernandes, due gol e due assit. Poi Shaw, freccia di sinistra, Pogba (nel bene e nel male) e il matador Cavani, due gol fatti. due divorati e un penalty procurato (a proposito: era un rigorino, ma che la palla fosse già passata non c’entra un tubo).

Se siamo qui a scrivere della Roma, è perché le altre erano già tutte uscite, Inter e Juventus comprese. Per arrivare a Danzica, dovrà vincere all’Olimpico «almeno» per 4-0 o 5-1. Siamo nel campo delle chimere, e non sono Eduardo Galeano.