Barriera e champagne

Roberto Beccantini28 aprile 2021

Niente circo, al Parco. Hanno deciso gli epiosdi: una sgrullata di Marquinhos su corner di Di Maria, un cross a ricciolo di De Bruyne, una punizione di Mahrez. Il rosso a Gueye ha anticipato di un paio di chilometri lo striscione del traguardo. La Champions non è solo caviale: è anche attesa che arrivi. E se non arriva, prontezza di ordinare qualcos’altro. Per un tempo, ci aveva pensato Neymar. E il Paris Saint-Qatar, pur senza inventare calcio, sembrava padrone della notte.

Guardiola, lui, aveva bocciato il centravanti e scelto lo spazio. Non ha vinto per questo. Ha vinto sui dettagli, questi «impostori». Non appena Neymar si è «ritiraro», la squadra l’ha seguito. Del Mbappé bavarese, timide ombre. Idem del «Fideu». Verratti, qualcosina. Florenzi, meglio ma non troppo.

La noia era una nebbia ambigua, curiosa: non faceva vedere, lasciava intravvedere. Non un’incursione di Gundogan, non uno slalom di Bernardo Silva. E da capitan De Bruyne, un menù banalotto. Tiri? Uno: di Foden, respinto.

Alla ripresa, il City ha continuato ad accerchiare l’area senza riempirla. Parigi non usciva più, non riusciva più. Pochettino non è Allegri e, dunque, non indago. Pep avvicendava Joao Cançelo (così così) con Zinchenko. Non è stata lì, la scossa. E’ venuta dalla riffa delle traiettorie, dal catechismo guardiolesco di passare il tempo passandoselo. Avesse perso, avremmo scritto di torello sterile e, sul fronte opposto, di catenaccio furbo. Eupalla ha premiato De Bruyne (tuttocampista di fatto e di censo, sempre) e castigato Keylor Navas. Poi il piazzato di Mahrez, fin lì ornamentale. Sulle barriere che si aprono come il mar Rosso, Cristiano ne sa ormai più di Mosè. E non solo Cristiano.

Tira aria di finale Chelsea-Manchester City. Prendetelo per una traccia e non, ancora, come un verdetto.

Ma il cielo è sempre più blu

Roberto Beccantini27 aprile 2021

Resta, di una partita intelligente e, per questo, non trascendentale, il primo quarto d’ora del Chelsea. A tutto gas, con i piedi che, mani rapide e ispirate, riempivano i fogli bianchi del Real. Colpiva la precisione: sia nel fraseggio che portava Werner a omaggiare Courtois di un gol fatto, sia nel lancio che, dettato da Pulisic e calibrato da Rudiger, armava l’estro dell’americano, perso da Nacho e tampinato da un portiere un filo «terrapiattista».

Falchi contro falchetti, era la prima Champions dopo il polverone della Superlega. Tuchel se l’è giocata a petto in fuori, Zizou con la prudenza che i cerotti gli suggerivano: difesa a tre e Benzema. Un gigante. Ha scheggiato un palo, ha segnato in mischia, di forza. Benzema e poi Kanté, l’altro gigante. Non più lucchetto davanti all’area, ma ascensore da un’area all’altra. E mai rozzo nelle sponde liberatorie.

Il Chelsea ha tirato poco, il Real ancora meno. I cambi, da Hazard a Ziyech e Havertz, hanno accompagnato la trama senza offrire «assassini» diversi da quello che aleggiava: il pareggio. Tutto rinviato a Stamford Bridge, dunque, dove i blues partiranno con un piccolo scudo. I blancos mi sono parsi un po’ sulle gambe – Modric e Kroos, soprattutto – spaventati dalle onde che il mare agitava, usi ad obbedir servendo (Benzema). Ci sarebbe voluto lo champagne che Vinicius stappò contro il Liverpool per ubriacare una difesa ben diretta di Thiago Silva, non le bollicine di brindisi così rari e carbonari.

La vivacità di Mount e il compasso di Jorginho cantavano sotto la pioggia. Le tracce di Carvajal e l’antico Marcelo non portavano lontano. Toccava a Militao, Varane e alle ruvide ante di Casemiro presidiare i valichi. Più Chelsea che Real, dunque, anche se la storia insegna a non fidarsi di Florentino.

Delirio di confusione

Roberto Beccantini25 aprile 2021

Tra Ribéry e Cristiano non c’è stata partita: finché ha retto, Ribéry per distacco. E per un tempo non c’era stata partita nemmeno fra Fiorentina e Juventus. Dal delirio di onnipotenza di Agnelli al delirio di confusione di Pirlo, che aveva sbagliato tutto, e dei giocatori, che tutto sbagliavano al di là di ogni ragionevole alibi: Dybala e Ramsey in testa.

La Viola non doveva nemmeno ringhiare. L’attendeva, la circondava, la punzecchiava: gran uscita di Szczesny su Vlahovic, palo di Pulgar, braccio di Rabiot troppo alto per commuovere il Var, rigore e cucchiaio del serbo, un 2000 che va marcato stretto.

Pirlo, già. Difesa a tre (?), Ramsey mezzala, non uno che attaccasse la profondità, il solito palleggio rugbistico e sbadigliante, Cristiano imbalsamato e Dybala in versione «uffa che barba». Una sola azione verticale, da Juventus: Dybala-Bentancur-Ramsey. Iachini è il mediano di un calcio antico che il cuore e le gambe sanno rendere moderno, o almeno competitivo. Amrabat, Pulgar e Ribéry legavano i reparti, mai lontani. Igor si occupava di Cuadrado, l’unica sorgente di Madama. Non proprio il massimo.

Gli ingressi di Morata e Kulusevski, il ritorno alla difesa a 4, il gol-lampo dello spagnolo (con Dragowski pollo) hanno rianimato Lazzaro, rimessosi, se non altro, a camminare. Palle-gol vere e proprie no, se non un’incornata, verso la fine, che Cierre, in altri tempi, non avrebbe ciccato. Il vento era cambiato. Un po’ più di Juventus – anche perché ci voleva poco, pochissimo – e una Fiorentina timida, barricadera.

L’impressione è che non potendo più credere allo scudetto, Cristiano e compagni credano a tutto: anche che sia impossibile arrivare almeno quarti. Salvo, qua e là, ribellarsi ai propri limiti, alle spinte secessioniste di superesa. Non, però, con la ferocia di un Ceferin.