La «vecchia» Signora

Roberto Beccantini12 maggio 2021

L’orgoglio, almeno questo. E i vecchi. Buffon, bravo sul rigore di Berardi non meno di Szczesny su quello di Kessié; e reattivo, molto reattivo, sulla lecca di Obiang. Poi il «ferrarista» Cristiano: la rete del raddoppio, dopo aver scherzato Marlon, un palo e una «garra» da sbirro uruguagio. Non credo che basterà per recuperare la zona Champions. Basterà per alimentare i dibattiti. Suggerisco un salto in archivio, all’estate del 2018.

E allora: Sassuolo uno Juventus tre. La partita l’hanno fatta allegramente e spensieratamente i boys di De Zerbi. Pirlo li ha aspettati, rinunziando al torello rugbistico che troppe volte, e troppo male, ne aveva zavorrato la stagione. Catenaccio «y» contropiede: alé. Eppure, o proprio perché, di punte o puntine ne aveva schierate quattro: Chiesa-Dybala-Cristiano-Kulusevski.

Un gioiellino della ditta Locatelli-Raspadori riapriva l’ordalia. Con il Sassuolo in versione «avanti Savoia» (Boga-Raspadori-Defrel-Berardi), a Madama si aprivano gustose fette di territorio. Dybala, imbeccato da Kulu, ne tagliava una. A differenza di Berardi, che, giunto al buffet, non trovava mai il coltello.

Un disastro, Rabiot (a parte il sinistro «libero» del gol e l’assist aereo a Cierre). In affanno, Bonucci: suo, fra parentesi, il penalty, netto, su quel diavoletto di Raspadori. E loro, naturalmente: Buffon, 43 anni. Cristiano, 36. Nei panni di Gigi non sarei tornato e magari la cerimonia dell’addio (l’ultimo?) proprio da amici non è stata. Ma questa è cronaca: la storia è un’altra, e la conosciamo. Cristiano era svagato, rancoroso, di fronte a scenari lunari (l’Europa League): ha reagito. Cento gol lui, nella Juventus, e cento Dybala: l’arma che più è mancata. Non solo per colpa di Pirlo. E sabato, Conte. L’ultima volta allo Stadium, in coppa, fu un dito medio contro il vaffa di Agnelli. Tranquilli: solo i grandi amori finiscono così.

Umiliati e (nemmeno) offesi

Roberto Beccantini9 maggio 2021

La Juventus di Udine senza i «biglietti» di Cristiano. Morale: tre a zero del Milan allo Stadium. E niente di clamoroso. Non sarà più brillante come all’andata, il Diavolo, ma resta una squadra. La Juventus è invece sempre quella: un infinito e sfinente torello all’indietro. Il 6 gennaio, a San Siro, l’aveva decisa Chiesa, schierato a destra. Al rientro, Pirlo l’ha piazzato a sinistra: mah. La Juventus non ha perso solo per questo, il Milan non ha vinto solo per questo. C’è molto altro. Pioli aveva preferito Brahim Diaz a Rebic: lo spagnolo gli ha dato il primo gol (con la complicità di Szczesny), un rigore (parato dal polacco a Kessié) e un su e giù fra le linee che creava problemi non lievi ai vecchi della tribù (Chiellini, per esempio, al terzo penalty procurato).

Non che i campioni non abbiano attaccato: all’inizio dei due tempi, soprattutto, con Donnarumma reattivo su Bentancur, ma si vedeva lontano un miglio che le coppie di difesa (Kjaer-Tomori) e di centrocampo (Kessié-Calhanoglu) erano «troppo» per Cuadrado, spossato da Theo Hernandez, addio regia occulta, per McKennie, ora qui ora là, Rabiot, ora là ora qui. Il Milan aveva un senso, la Juventus no: anche perché i piedi, nei momenti topici, diventavano ferri da stiro, e non uno che azzardasse il lancio, le poche volte che la punta lo dettava. Non Morata: triste, solitario y final.

E Cristiano? Ai margini, perché ignorato e perché scazzato. Il Milan ha aspettato. L’infortunio di Ibra, prezioso ancorché fermo, ha sguinzagliato Rebic, autore dello splendido raddoppio. Poi Tomori di testa, alla grandissima. E così Madama va sotto persino nei confronti diretti: complimenti. In sostanza: la «solita»Juventus, sempre diversa e sempre uguale. Vuota, monotona, come se qualcuno avesse avuto fretta di spegnere le rare luci scampate al corto circuito. Qualcuno chi? La società (con la menata della Superlega), Pirlo, i giocatori. Il tempo stringe, Elkann sempre più vicino e la zona Champions sempre più lontana.

Citius! Altius! Fortius!

Roberto Beccantini5 maggio 2021

Più veloce, più feroce: il Chelsea di Tuchel lascia al Real di Zizou quel torello orizzontale che sta al calcio moderno, ormai, come un salottino a una piazza in rivolta e si prende tutto il resto, la partita, il risultato, la finale di Champions. Uno a uno a Madrid – e già, all’inizio, un quarto d’ora da sballo – due a zero a Stamford Bridge. Complimentissimi.

Gli esperti ci spiegheranno perché il Paris Saint-Qatar ha segato questo tedesco che lo aveva portato alla «bella» con il Bayern, persa – anche – per le parate di Neuer. Io non ci arrivo. La partita, adesso. Avete presente una gara di cento metri? Ecco: uno sprinter puro, il Chelsea, si è trovato di fianco un ottocentista, il Real di Modric, Kroos e compagnia bella. Kanté, Mount, Werner e poi, nella ripesa, Pulisic se li sono letteralmente mangiati.

Se escludiamo due grandi parate di Mendy su Benzema, non ricordo altro, nell’area british. Viceversa, Courtois e Valverde hanno evitato gol sicuri: e non pochi. Tuchel ha lasciato che fosse il Real a sentirsi padrone. L’ha lavorato di contropiede, soprattutto nel loft di Militao e al centro. Si è sbloccato Werner, ho colto in Havertz (classe 1999) tracce di un possibile Eldorado, ho apprezzato il repertorio di Mount, del ‘99 pure lui, autore del raddoppio. E fra i grandi vecchi della difesa, meglio Thiago Silva, 36 anni, di Sergio Ramos, 35.

Zidane avrebbe avuto bisogno del miglior Hazard, non di questo, dal dribbling ancora ingessato. Poteva segnare chiunque, nel Chelsea. Solo Benzema, nel Real. E già questo è un confine non lieve. Il 29 maggio a Istanbul, dunque, Manchester City-Chelsea. E’ il secondo derby inglese nel giro di due anni, dopo Liverpool-Tottenhm 2-0 del 2019. Te la do io, la Superlega: firmato, Superpremier.

Dirigeva Orsato. Testimone, non protagonista. Meno male.