Pep, certo. E poi Icardi

Roberto Beccantini4 maggio 2021

Sarà la prima finale del City un miliardo di euro dopo, la prima del Pep lontano da Messi. E’ storia, dunque, e non semplice cronaca. La Champions ha sempre fame. Il Paris Saint-Qatar si arrende all’assenza di Mbappé e alla presenza Icardi, né spazio né centravanti, ignorato da Neymar e mai in grado di comunicare con la terra ferma.

Due a uno al Parco, 2-0 all’Etihad. La doppietta di Mahrez, già a segno all’andata, racconta della lontananza che separa Guardiola dall’immunità di gregge che spesso concediamo al nostro esperanto. Primo gol: lancio del portiere e contropiede diretto. Secondo: azione alla mano De Bruyne-Foden e contropiede indiretto. Chapeau. Con la difesa francese bivaccante a metà campo.

La grandine aveva trasformato il prato in un tappeto di chiodi per fachiri, subito Paris, subito Mahrez, la traversa di Marquinhos, le scosse di Di Maria, il bucato di Verratti, le discese di Florenzi. E il mistero Icardi. Il City ha giocato di squadra e quel Ruben Dias ha murato un sacco di tiri. Il Paris ha giocato «di» Neymar, solo contro troppi. Il rosso a Di Maria ha chiuso i giochi, così come, la settimana scorsa, li aveva chiusi il rosso a Gana Gueye.

I vent’anni di Foden (un assist, un palo) continuano a deliziarmi. Con la palla al piede non è mai una palla al piede. Il Barça di Messi, Iniesta e Xavi era più totalizzante e difendeva così alto da sembrare sempre all’attacco. Il City di Gundogan è più vario: se c’è da barricarsi si barrica. Occhio, però: appena può, scatena i suoi veltri. Dimenticavo Zinchenko, classe 1996, faccia tosta e sinistro filante. Ha scalzato Joao Cançelo.

Il City era il mio favorito e, a maggior ragione, lo rimane. Mbappé e Neymar avevano portato Pochettino oltre il Bayern. Altra storia, con Icardi al posto di Mbappé. Come diversa sarà la storia di Roma con due pontefici e non più uno, papa Francesco e papa José.

Alla lotteria di Cristiano

Roberto Beccantini2 maggio 2021

Nel giorno in cui, dopo nove anni di «regno», l’Inter le strappa lo scudetto, la Juventus salva la pelle alla lotteria di Cristiano. L’Udinese di Gotti stava meritatamente vincendo – di fisico, di cuore, di assoluta normalità – mentre Madama sembrava una Maria Antonietta scarmigliata e in fuga da sé stessa, non solo da Versailles. Le mancava di prendere gol da punizione battuta lestamente, come negli oratori di una volta, quando il più furbo calciava la palla fra la sottanona del prete bonario. Da De Paul a Molina, tutti un po’ così e Szczesny un po’ cosa.

Era il solito incipit dei soliti giocatori della solita Juventus del solito Pirlo, ormai nudi alla meta e non più in grado di trasformare il quarto posto in un forziere. Cristiano ha un’età per cui avrebbe bisogno di una squadra, e la Juventus una squadra che avrebbe bisogno del Cristiano giovane: troppo lontani, gli estremi, per toccarsi. L’area vuota (fino, almeno, all’ingresso di Morata), il carattere ancora di più e, come gioco, la caricatura del City guardiolesco: palla rigorosamente orizzontale e implacabilmente lenta e/o indietro. Con Dybala lontano dagli occhi e del cuore (dell’azione), con Cuadrado raddoppiato e, dunque, emarginato.

Ma perché, allora, Udinese uno Juventus due? Perché alla lotteria di Cristiano, d’improvviso, sono usciti due biglietti: il primo, su rigore per braccio largo di De Paul in barriera (De Paul, fin lì sultaneggiante); il secondo, di testa, su cross di Rabiot (cambio azzeccato, ma sì), complice uno Scuffet distratto, o comunque sorpreso.

E così Madama resta aggrappata alla tenda della zona Champions. Domenica, il Milan allo Stadium: ennesimo spareggio. Immagino, se non rientra Chiesa, la ressa attorno alla tombola di Cierre. Tirare subito i dadi di Kulusevski e Morata, no?

C’era una volta la pazza Inter

Roberto Beccantini2 maggio 2021

Era stata l’Inter, negli anni Trenta, a conquistare l’ultimo scudetto prima del quinquennio di Edoardo Agnelli. E’ l’Inter, ancora lei, ad aggiudicarsi il primo dopo il novennio del nipote Andrea. Quando finisce una dittatura, non sai mai cosa comincia. In questo caso, pensi di sapere cos’è finito, e perché.

Nella mia griglia di settembre l’Inter veniva subito dietro alla Juventus. Poi Atalanta, Milan, Napoli, Roma e Lazio. La Juventus è crollata sotto il peso delle scommesse aziendali (non solo Pirlo) e di un’altra Champions tradita. La Dea ha patito il canonico, tempestoso, rodaggio. Il Milan, la panchina corta. Il Napoli, un po’ gli infortuni e un po’ i complicati rapporti fra Gattuso e De Laurentiis. Le romane, i soliti alti e bassi di sentimenti e risentimenti.

L’Inter era rimasta al Triplete di Mourinho, alle coppe di Benitez e Leonardo. A un Moratti sazio, a un Thohir in transito. Fino, improvvisamente, ai cinesi di Suning, a una lontananza che spesso abbiamo definito canaglia. Fino a Beppe Marotta e Antonio Conte. La chiave di volta, e di svolta. Costole juventine in una società che viveva della pazzia raccontata dall’inno e dalla storia, il romanzo di Ronaldo il fenomeno, delle foglie morte di Mariolino Corso, del circo di Alvaro Recoba.

E’ il diciannovesimo titolo, tavolino compreso. Il quinto di Conte dopo i tre della Juventus e la Premier del Chelsea. Antonio è un martello. Ha trasformato il vuoto cosmico (e umiliante) della resa europea in un pieno di benzina. Si è corretto, ha bocciato promossi (Vidal, Kolarov) e promosso bocciati (Perisic, Eriksen); ha rinunziato all’idea fusignanista d’invasione, preferendole la dottrina allegrista di gestione. Ha avvicinato Lau-toro a Lukaku, ha ghigliottinato il trequartista e liberato il 3-5-2 con il quale, a Torino, aveva battezzato l’epopea juventina.


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