Non può essere un caso se, in campionato, la Juventus non riesce a battere una grande. Perché «grande», oggi, non lo è ancora. Alludo al gioco, naturalmente, che Pirlo sta cercando di imporre perché la squadra lo imponga. Sapete del Papu e di Ilicic: senza, l’Atalanta resta un’idea, non corre più come una volta, non ha più la fantasia dei tempi belli, ma è sempre lì: un’idea, appunto, che spinge l’avversario, chiunque sia, a temerla. Anche così.
La Juventus lancia, l’Atalanta avanza. Migliori in campo, i portieri: Gollini (soprattutto) e Szczesny. I peggiori, Morata e Cristiano: il primo, con l’attenuante degli uncini di Romero e dei riflessi di Gollini; il secondo, con l’aggravante di essersi divorato un gol in avvio e di essersi fatto bloccare – bloccare, non parare – un rigorino. Girava al largo come se non volesse fare brutti incontri. Capita, semel in Bronx.
Scritto che Doveri ha diretto a spanne – che nesso c’è fra il contatto Hateboer-Chiesa, punito con il penalty, e la «grazia» a De Roon su Cuadrado? – Chiesa e Freuler hanno firmato reti splendide, per quanto Federico si sia spesso rintanato alla periferia del match (e con Gollini a terra, avrebbe dovuto fermarsi, alla Di Canio).
Di Pirlo, l’aggiustamento più valido rimane il pendolarismo di McKennie, ora rifinitore ora incursore. Magari, al posto del tecnico, avrei anticipato l’ingresso di Dybala, ma sono opinioni. Il Gasp, lui, ha pareggiato – curiosamente – dopo aver «liberato» Gomez, scrivendo l’ennesimo capitolo di una favola nel cuore della quale, tra le fatine, avrebbe fatto irruzione l’orco. La partita è stata «maschia», per usare un termine d’antan, equilibrata, con De Ligt e Zapata a contendersi il titolo dei massimi, vinto dall’olandese, e con la Juventus che, nei cortili domestici, sfoggia troppi tacchi (vero, Morata?). Imbattuta, sì, ma facilmente leggibile.