Conte corrente

Roberto Beccantini28 settembre 2019

Ultima con la Spal, la Sampdoria ha provato a giochicchiare ma non appena l’Inter l’ha messa là, come si dice in gergo, al popolo pagante non rimaneva che attendere la scintilla, l’episodio. Un tiro di Sensi carambolato su Sanchez, poi Sanchez imbeccato da Sensi. Ciao Pep, si dice a Milano. Il primo gol mi ha ricordato la sponda involontaria di Inzaghi sulla punizione di Pirlo ad Atene, nella finale-rivincita di Champions 2007, Milan-Liverpool 2-1. Una spallata del destino.

Il governo Conte tiene, e come. Sei partite, sei vittorie: e la miseria di due gol al passivo. Se con la Lazio servì il miglior Handanovic, a Marassi ci ha pensato l’orchestra, Brozovic e Sensi in testa. E così al faccia a faccia del 6 ottobre l’Inter arriva a punteggio pieno (18) e la Juventus a meno due. Allacciatevi le cinture. Sarà la Champions a introdurre l’ordalia: la Juventus martedì con il Bayer Lervkusen, l’Inter mercoledì a Barcellona contro non si sa bene chi, se Messi o una delle sue ombre.

C’era una volta la Sampdoria. Di Francesco non può fare miracoli (e Quagliarella sempre 26 gol a stagione). Il braccio di ferro tra Ferrero e Vialli, con in palio la proprietà del club, continua ad aggirarsi sulla rosa come un avvoltoio. Non deve essere un alibi, ma non può neppure essere il migliore dei mondi possibili.

Conte, lui, è ricorso a un modico turnover. Un tuffo sciocco e palese, con relativa espulsione per cumulo, costringerà Sanchez a saltare Madama: immagino l’arrabbiatura dell’allenatore. Se la Juventus, per liquidare la pratica, ha impiegato 40 minuti, la capolista si è sbrigata in una ventina. Dopodiché, a Genova come allo Stadium, dominio assoluto. E nemmeno in inferiorità numerica sofferenze clamorose, visto come il guizzo di Gagliardini, su assist di Brozo, ha spento in fretta il falò di Jankto.

Spal, Sampdoria: materassi, d’accordo. Ma sopra nessuno russava.

Da Henderson a Berisha

Roberto Beccantini28 settembre 2019

Calcio, metà antro di Polifemo e metà laboratorio del destino. Il ricordo fresco fresco di Napoli-Cagliari suggeriva prudenza. E dopo aver visto la papera con la quale Henderson aveva offerto il successo al Liverpool, sono ancora qui che penso a come sarebbe finita, a Sheffield, con Berisha fra i pali (voto 8). Berisha è il portiere della Spal, numero uno in tutti i sensi: almeno oggi. Le sue parate (sei? sette?) hanno tenuto il tabellino entro proporzioni umane.

E’ la prima vittoria della Juventus con due reti di scarto. Niente di che. La Spal, decimata, si è presa i primi tiri, innocenti, e poi ha giocato come sa: aspettando Godot. La Juventus, viceversa, gioca studiando Sarri, e viceversa. Mancavano i terzini, surrogati da Cuadrado (6) e da Matuidi (5,5), addirittura. Che tendeva ad accentrarsi, scoprendo la fascia.

C’era Rabiot (4), più tormento che talento. C’era Ramsey trequartista (6,5). C’era di nuovo Cristiano (6,5), con Dybala (7). C’è stata partita fino al 40’, poi più. E questo, naturalmente, leviga i giudizi, smussa i superlativi, spegne i neon delle metafore.

In attesa del Bayer e dell’Inter, una cosa si può dire, senza sbattere i pugni sul tavolo o alzare la voce: alla ripresa, invece di amministrare il gruzzolo, Madama ha continuato a pressare, a recuperar palla, a invadere l’area ferrarese, con o senza centravanti, rischiando niente (salvo una «bonucciatina» agli sgoccioli).

Il piccolo Omar continua a non segnare, ma ha fatto segnare. E’ Pjanic (7) che non smette: dopo Brescia, un destro di così raffinata coordinazione da meritarsi la coccola di Valdifiori. Mi è piaciuto Khedira (6,5), e persino De Ligt (6,5). Dimenticavo: sono contrario alle staffette tra i portieri, ma i record eccitano Buffon e allora mi ritiro in buon ordine.

Mani in alto

Roberto Beccantini26 settembre 2019

Alla Juventus Conte aveva Buffon, all’Inter ha trovato Handanovic: l’importanza del portiere. Se ritenete l’assunto banale, suonate a casa Klopp, lui che è passato da Karius adl Alisson. Ecco: contro la Lazio – la solita Lazio in bilico tra diminutivi e vezzeggiativi: bravina, raffinatina, completina, fragilina – la mano del capitano è stata più preziosa della mano dell’allenatore. Almeno per un tempo. Dalla zuccata di D’Ambrosio (una volta avremmo scritto: cross del terzino sinistro, Biraghi, gol del terzino destro) allo sgorbio aereo di Correa. Poi è uscita l’Inter, più fisica e organizzata. L’Inter di Barella, un coltellino a serramanico, di Brozovic, dello sherpa Lukaku e di una base difensiva che rimanda agli otto scudetti della Juventus, tutti vinti con la maginot più blindata (e solo due volte, gli anni di Tevez, anche con il miglior attacco).

Inzaghino aveva ricavato più dai sostituiti (Caicedo, soprattutto, e Luis Aberto; tranne Milinkovic-Savic, in versione tacco e suola) che non dai sostituti (il ribelle Immobile in testa, ma pure Lucas Leiva). E allora Inter a punteggio pieno, la Juventus sarriana sempre a due e il Napoli ancelottiano già a sei.

Non posso non parlare della Dea. Ha sbancato l’Olimpico romanista in capo a un braccio di ferro così forsennato che persino la Premier avrebbe applaudito. Con Ilicic e il Papu al fronte, Gasperini si era permesso Zapata in panca. E’ stata la «riserva», con una sassata, a frantumare la vetrina di Fonseca. la cui Roma mica aveva giocato male, soprattutto nel primo tempo: semplicemente, l’Atalanta aveva giocato meglio. Bava alla bocca, marcature in avanti, un eretismo podistico che avrebbe scosso addirittura Brera. E’ non è la prima volta. E non è il primo anno. La risposta, ancora più fiammeggiante della rimonta «fiorentina», al crollo di Zagabria. Bergamo di sopra, e non ci si annoia mai.