La meglio gioventù

Roberto Beccantini5 marzo 2019

Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile. Lo disse Cruijff, mi è venuto in mente nell’ammirare, estasiato, i suoi «nipotini» prendere in giro il Bernabeu. Real uno, Ajax quattro: e così Real fuori già negli ottavi e Ajax ai quarti. Il sentimento va oltre i dati, che pure sono enormi. La meglio gioventù è andata al potere in una notte di marzo che, almeno alla vigilia, sembrava prigioniera della solita retorica. Alla faccia dei pronostici: persino il re deposto e umiliato ne ha riconosciuto i meriti.

E’ proprio vero che per ordire una rivolta basta un capo, mentre per fare una rivoluzione serve un’idea. E l’idea dell’Ajax, anche dopo la sentenza Bosman e gli alti e bassi delle generazioni, tale è rimasta: calcio verticale, veloce, ricamato, non più ossessivo e possessivo ma sempre bello, coraggioso, leggero.

Tadic – due assist, il secondo con ruleta, e un gol – sembrava Messi, poi De Jong la bussola, De Ligt il pilone, Ziyech e Neres le frecce. L’allenatore si chiama ten Hag, e un genio non risulta che sia. Là dove la scuola pulsa, i geni in panchina non servono (più).

L’impresa dell’Ajax restituisce il calcio a una dimensione quasi giocosa, da strada: sono scintille, queste, che in cenere non si ridurranno neppure in caso di eliminazione. Si sapeva che il Real di Solari fosse in crisi, ma non al punto di implodere. Il destino, già benevolo all’andata e probabilmente disgustato dall’autosqualifica di Sergio Ramos, il capitano, questa volta se n’è lavato le mani. E così: i due pali, l’infortunio di Vinicius, fin lì il più pimpante, il Var sulla rete di Tadic, il rosso a Nacho. Pagliuzze in una foresta di travi.

Era il Real delle tredici Champions, delle quattro vinte nelle ultime cinque edizioni, il Real campione in carica. Senza Zidane e Cristiano che, a naso, qualcosa dovevano aver fiutato.

Quel destino cinico e «caro»

Roberto Beccantini3 marzo 2019

Povero Cristiano. Triste, solitario y banal: ma non per colpa sua. Certo, la vittoria vale, probabilissimamente, l’ottavo scudetto di fila. Ma che Juventus è stata? Aveva fatto di tutto, il Napoli, per spianarle la strada. Regalo di Malcuit, rosso a Meret per piede a martello fra le gambe del marziano. Era il 25’. Pjanic trasformava magistralmente la punizione, la prima del campionato. Il cul di Allegri spingeva una sventola di Zielinski sul palo ed Emre Can al raddoppio, di testa.

La Signora in carrozza, avremmo raccontato in altri tempi. Invece no. In avvio di ripresa, la sciocchezza di Pjanic (secondo giallo) riportava le squadre in parità numerica e da quel momento c’è stato solo Napoli, sempre Napoli, troppo Napoli. Paratona di Szczesny su Zielinski, palo di Insigne su rigore e un bombardamento da sbarco in Normandia.

E Allegri? Aveva rinunciato a Dybala, e si era aggrappato alle ante di Mandzukic, che nel cuor mi sta ma in forma non è. Contropiede? Ne ricordo uno, sciupato – tenetevi forte – da Cristiano. Tutti indietro, a catenaccio mostrare. Tutti, tranne uno: sapete chi. E i giocatori? tonnellate di errori nei passaggi.

In Italia, va così: con Madama, il destino è spesso cinico e «caro»; in Champions, non sempre. Anzi. Di sicuro, per ribaltare l’Atletico non basterà «questa» Juventus. Che ha giochicchiato anche quando aveva in pugno la notte; che ha saputo soffrire, avesse detto, prima e dopo il gol di Callejon. Ancelotti si è giocato Milik (togliendolo) e Mertens (inserendolo); e ha usato spesso Koulibaly come totem d’attacco. Scritto che il migliore della Juventus, legni a parte, è stato il portiere, penso di aver detto tutto.

I risultatisti brinderanno a champagne: 23 vittorie su 26. Chiedo scusa, ma non ci riesco.

Brutti, sgonfi e nemmeno cattivi

Roberto Beccantini24 febbraio 2019

Sono proprio queste le vittorie che, più e meglio dei trattati consultabili sul web, spiegano la differenza del medagliere della Signora fra Italia ed Europa. Il Bologna avrebbe meritato almeno il pari, tra la «parata» di Alex Sandro su Mbayé e il Perin-più-palo su Sansone, e invece ha perso. Ha perso perché, a un certo punto, è entrato Dybala che, smarcato da un liscio di Helander, ha spiazzato Skorupski. Curiosamente, si trovava in area.

Ora, alzi la mano chi non l’avrebbe messo, l’argentino, in quel mortorio di partita e di squadra. Ad Allegri, se mai, bisognerebbe chiedere il motivo di gomme così sgonfie, di una manovra così imbarazzante; e ai signori giocatori, le ragioni di tanti errori nei passaggi (solo per il cerchiobottismo tattico del mister? uhm).

C’era stata la lezione del Cholo, e Mihajlovic aveva rivoltato il Bologna. Non si pretendeva una risposta altisonante ma neppure, per Brio, uno spettacolo del genere. Per raccogliere la briciola di Bernardeschi mezzala, bisogna sdraiarsi ai piedi di un Cristiano che, bollito, assomiglia sempre più al marziano di Ennio Flaiano e di un centrocampo che, ridotto ai minimi termini, sembrava un cantiere polveroso. Con la chicca di Cancelo ala.

Gli eventi mi smentiranno, ma le idi di marzo si avvicinano e nascondono pugnali più affilati degli slogan. Non vorrei che, al netto degli infortuni, i famosi carichi di gennaio fossero stati un po’ troppo enfatizzati. Per perdere lo scudetto serve un’impresa non inferiore al miracolo che urge per rovesciare l’Atletico.

Non si tratta di essere «risultatisti» o «prestazionisti», argomento che abbiamo già dibattuto un sacco di volte. C’è un limite a tutto: e a molti. Sempre che si voglia fare strada in Champions. Che Madama non vince dal 1996.

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