Ecco dove può portare, per una sera, la forza dei sogni: oltre Messsi, al di là del Barcellona e del suo 4-1 esagerato dell’andata, in semifinale di Champions. Questa è un’impresa, e come tale va celebrata. E pazienza se la retorica imporrà il suo dazio. I lettori ci sono abituati.
Ci voleva la partita perfetta. C’è stata. Di Francesco l’ha preparata come meglio non avrebbe potuto; e se Valverde non proprio, peggio per lui. Dicono: la difesa a tre è poco europea. Sarà : è stata una delle chiavi, non solo per la capocciata di Manolas o l’irruenza di Juan Jesus e Fazio, entrambi a rischio rosso. I continui cambi di fronte, i lanci di De Rossi, la profondità garantita da Dzeko, grandissimo, e persino da Schick, quel mordi e arretra senza mai fuggire dalle esigenze di un pressing generoso, razionale, hanno imprigionato il Barça alle catene di uno stucchevole calcetto e di fotte difensive da ritiro della patente.
Subito avanti (Dzeko), la Roma ha concesso zero palle-gol e solo due punizioni a Messi. In compenso, dopo il rigore, solare, del raddoppio (Piqué su Dzeko, destro di De Rossi), ha atteso, ha rallentato, ha colpito, con Manolas, grazie alle risorse che le rimanevano: i calci d’angolo e i cambi (Under).
E Messi? Spinto nel traffico, ingabbiato e persino ammonito. Eppure i bollettini dalla Spagna lo davano in gran forma. Detto che per disarmare un marziano ci vuole anche la sua complicità , non si può non ribadire quanto Di Francesco abbia compiuto un capolavoro. Lo scarto gli imponeva di essere coraggioso, lo è stato governando gli eccessi, tattici ed emotivi.
Ci sarà tempo per chiedersi come mai «questa» Roma, capace di eliminare il Barcellona, abbia gia perso sette volte in campionato. Preferisco volare dagli autogol di De Rossi e Manolas ai gol di De Rossi e Manolas. Roma, mistero senza fine bello.