Arrivederci a Roma

Roberto Beccantini13 marzo 2018

Dopo la Juventus, ecco la Roma. Due squadre italiane nei quarti di Champions: non capitava da undici anni. Sarà pure un piccolo passo per il calcio, ma resta un grande passo per il calcio italiano. Alla Roma, sconfitta 2-1 in Ucraina, bastava l’1-0. Detto fatto: Dzeko, su assist di Strootman.

L’importanza dei centravanti: da Higuain al bosniaco, «via» Dybala. Lo Shakhtar dei brasiliani non ha mai tirato in porta. Tiki taka a metà campo e una difesa così alta, così arrogante, che era impossibile non ne combinasse almeno una. Difatti. Sentinelle larghe, più attente alla lavagna che all’uomo: come gli Spurs sul gol di Dybala. Povero catenaccio mio gettato al vento.

Sono contento per Di Francesco (e per Montella, che la riscossa di Gattuso aveva declassato a schiappa). La partita è stata tattica, noiosa. Il merito della Roma è stato quello di non farsela mai scappare di mano, cosa che in campionato le succede(va) spesso. Prima della sfida con il Toro, Di Francesco l’aveva detta grossa: «Ispiriamoci alla Juventus, non muore mai». E molto juventina – per organizzazione, volontà e pazienza – la sua Roma è sembrata. Non ha rubato l’occhio, ha colto l’attimo, ha costretto gli avversari a girare il largo. Una botta di Allegrismo.

In classifica la Roma è terza, fuori dai giochi. In Champions ha eliminato Chelsea, Atletico e quello Shakhtar che, a sua volta, aveva eliminato il Napoli. Certo, si può e si deve migliorare sul piano tecnico, e magari gestire meglio la superiorità numerica (espulso Ordets). Occhio, però: la storia non gioca ma pesa, erano dieci anni che la Roma non approdava ai quarti; e l’allenatore, tra parentesi, era al debutto in Champions.

I migliori: Dzeko, Nainggolan e Strootman. Tutti hanno dato tutto. E mai un calo di concentrazione, dicasi uno. Sempre sul pezzo, dall’inizio alla fine: perché, appunto, non fosse la fine.

I soli(s)ti noti

Roberto Beccantini11 marzo 2018

Non pretendete che una Cassa di Risparmio diventi un Luna Park. Accontentatevi che sia solvibile: e in Italia, da sei anni, la Juventus lo è. L’Udinese era una delle poche squadre che, in campionato, ne avevano violato il caveau. Non ci sono ancora riusciti il Napoli, la Roma, il Milan. L’Udinese sì. Non questa, naturalmente: viva per un paio di minuti (giallo di Chiellini su Jankto, gran parata di Szczesny su Ali Adnan) e poi tutta dietro la linea della palla, come a Coverciano insegnano di dire per non dire catenaccio.

Insomma. Allegri ha fatto la sua partita e Oddo, la sua. I piedi di Dybala – punizione di sinistro, diagonale di destro – hanno scolpito il risultato. Ne aveva cambiati sei, l’Incartatore, rispetto a Wembley: rotazioni che non hanno impedito l’undicesima vittoria di fila.

Per la cronaca, e solo per quella, va citato il rigore che Bizzarri ha parato a Higuain, non nuovo a questo genere di errori. Il Pipita è tanto bravo (vedasi l’assist per il 2-0, non inferiore, per bellezza, al tocco di mercoledì) quanto emotivo: e i nervi, soprattutto quando i metri sono undici, possono giocare brutti scherzi. A Napoli ne sanno qualcosa.

What else? L’unico italiano dell’Udinese, Angella, ne ha combinate più di Carlo in Francia: suoi i falli (su Higuain e Dybala) che hanno portato alla punizione e al penalty.

Con la castità che il contesto impone, segnalo: bene Chiellini e De Sciglio, benino Marchisio in regia, rivedibile Rugani in fase d’appoggio. Mi fermo. Il calendario è un martello – mercoledì il recupero con l’Atalanta, sabato l’anticipo con la Spal, a Ferrara – e gli sportelli, dunque, sempre aperti.

Per una volta, risultatisti e prestazionisti se ne sono andati a braccetto. Un altro miracolo di Davide, da lassù.

Dal niente al tutto

Roberto Beccantini7 marzo 2018

Dal niente al tutto. Con l’attacco decimato e senza cambi che non fossero Asamoah, Lichtsteiner e Sturaro, la Juventus ha avuto la forza di resistere non tanto al Tottenham, che pure era passato in vantaggio e stava dominando, quanto ai propri sgorbi tecnici e isterici. Zero tiri in porta, Son formato Garrincha, Barzagli, Pjanic e Khedira alla mercé degli incursori sul centro-destra.

Mancava, è vero, un rigore di Vertonghen su Douglas Costa e Kane al momento di timbrare il palo, proprio agli sgoccioli, era in fuorigioco. Travi, non pagliuzze. Un paziente mi ha pregato, al telefono, di lasciar perdere: «fanno pari con gli episodi dell’andata». Per fortuna ne esistono ancora, di questi degenti.

Sull’Allegrismo si stavano agitando, come avvoltoi, prestazionisti e risultatisti, stranamente alleati. Era Wembley, non un Colosseo di periferia. Era il Tottenham di Pochettino, non il Real di Cristiano. Quella prudenza che sembrava attesa, e quell’attesa che pareva (ormai) resa, sono scomparse d’improvviso. Allegri aveva avvicendato Matuidi e Benatia con Asamoah e Lichtsteiner. Era inimmaginabile che potessero produrre un po’ più di equilibrio e – Licht, addirittura – il cross per il gol di Higuain. Il Pipita si trascinava, fresco di recupero: soverchiato, abbandonato. Ma i campioni sono campioni. E così, non pago, ecco l’assist a Dybala che fin lì si era nascosto.

Agli Spurs sarebbe servito il pelo sullo stomaco che, viceversa, decora la trippa dei rivali. Rivali che, in materia di mira o buona sorte, non scherzano: due tiri due gol a Wembley, un tiro un gol all’Olimpico. La Juventus ha sofferto fino al catenaccio dell’epilogo. I migliori sono stati Douglas Costa e Chiellini. Non il massimo, Buffon, sulla carambola di Son. Dopo il 2-2 dello Stadium, Madama doveva vincere. Mi piace pensare che sia stato Davide, da lassù, a spingerla verso quei tre minuti da Golia.