È il calcio, bellezze

Roberto Beccantini29 aprile 2017

E’ stata una partita che aiuta a crescere tutti, anche le grandi squadre. L’Atalanta ha spremuto per un tempo la magna Juventus trovando il gol con Conti, capace, lui tra i pochi, di reggere lo strascico fisico di Mandzukic.

Gasperini marcava a uomo, Masiello su Dybala, Spinazzola su Cuadrado, la qual cosa non gli impedisce di giocare un calcio moderno, un calcio che lo sta portando in Europa. Allegri ha aspettato i cadaveri sulla riva del fiume. Quanti errori, Chiellini e Khedira. E, più in generale, quante leggerezze là dove ogni scarabocchio può diventare letale, come ha certificato la frittata del due pari, a monte della carambola Barzagli-Freuler. Higuain, poi, ne aveva sempre uno addosso (Caldara) se non due (Caldara, Toloi). Gomez era il falso nueve che sabotava le geometrie.

Tutt’altra musica, alla ripresa. La Juventus è stata fortunata nell’autogol di Spinazzola, sfortunata nella consecutio temporum del braccio di Toloi-fuorigioco di Mandzukic (rigore, perché il braccio era antecedente), brava nell’impallinare l’ottimo Berisha con Dani Alves, avanzato al posto di Cuadrado dopo l’ingresso di Lichtsteiner al posto del colombiano. Splendido, il lancio di Pjanic; non altrettanto la sua notte. E Dybala, meglio decisamente a gioco lungo, anche se il rendimento esterno rimane clamorosamente sbilanciato (otto gol in casa, uno a Empoli).

Sembrava che Allegri le avesse azzeccate tutte pure stavolta. L’epifania di Barzagli, viceversa, ha ridato fiato alle trombe atalantine, sulle quali Buffon si è speso fino all’ultimo pugno. Si può prendere gol in tanti modi, soprattutto se hai di fronte il coraggio e la stoffa di una Dea, ma non come l’ha preso Madama, risultato in mano e palla al piede.

Eppure era la stessa diga che aveva resistito alla piena di Messi, Suarez e Neymar. È il calcio, bellezze.

Ma non era finito?

Roberto Beccantini23 aprile 2017

In un weekend che ha segnato il harakiri dei cinesi di Milano, la Juventus si è sbarazzata agevolmente di quel Genoa che, a Marassi, le aveva inflitto la lezione più cocente di tutta la stagione.

Veniva, la Signora, dagli applausi del Camp Nou e dalle coccole dei giornali spagnoli. Allegri ha mescolato un po’ di uomini e un po’ di schemi, «as usual», ricavando il massimo da ogni movimento, da ogni rotella: persino da Marchisio, complice dell’autogol di Munoz e di una gran legnata stampatasi sulla traversa (e da lì sul destro di Higuain, e dall’alluce sul palo).

Una Juventus bella, pimpante e allegra nel gioco come sanno essere le squadre che, al di là dell’avversario – e il Grifo non aveva certo l’hybris dell’andata – non intendono lasciare nulla al caso, nemmeno una zolla.

Il sinistro sivoriano di Dybala, il destro forbito di Mandzukic, la discesa-arresto-tiro di Bonucci. Bei gol. Era una tappa cruciale, alla luce del calendario: Bergamo venerdì, poi la roulette di Montecarlo, il derby, ancora il Monaco, la Roma a Roma. Ci siamo.

Sono trentatré, le vittorie consecutive allo Stadium. E sull’homo mandzukianus ci sarebbe da scrivere un libro. Non ci voleva il Genoa per comporre l’introduzione. Ci voleva, però, Allegri per deportarlo nella Siberia della fascia, lui centravanti geloso e goloso, e fargli credere che, in quella posizione, non solo non sarebbe stato meno forte, ma sarebbe stato, addirittura, più utile. Il vero nove che segnava poco è diventato, così, un terzino-mediano che segna abbastanza, e cuce, e copre, e si fa un mazzo tanto (a rischio giallo, talvolta).

Un accenno alla regia di Higuain, un altro al debutto di Mandragora e un salto al Bernabeu: Real-Barcellona 2-3. Doppietta di un «certo» Leo Messi. Ma non era finito?

L’equilibrio e la roulette

Roberto Beccantini21 aprile 2017

Se tre indizi fanno una prova, due scintille cosa fanno? E’ la domanda che la Juventus ha portato dentro il sorteggio: e, visto l’esito, meno male che non ci fosse più Platini presidente (anche se mi dispiace); immagino, in quel caso, i colpi di tosse, le battutine, le strizzatine d’occhio.

Real-Atletico, Monaco-Juventus. Tutti film già visti. La fortuna, se di fortuna si può parlare, non è tanto l’avversario che Allegri dovrà incartare, quanto il fatto che dal derby di Madrid toglierà il disturbo, comunque, un potenziale vincitore.

Juventus e Monaco si affrontarono nei quarti della Champions 2015, quella della finale di Berlino. Furono partite complicate: 1-0 allo Stadium, rigore di Vidal; 0-0 al Louis II. Ai francesi sono rimasti sullo stomaco gli arbitri. Più o meno come a Marotta dopo il Bayern di un anno fa.

Aver eliminato il Barcellona e lasciato a zero la triade più forte del mondo, Messi-Suarez-Neymar, giustifica la carezza del pronostico. Serviva la scossa: eccola. La Juventus è abituata a cominciare in casa, ma a Porto non è che le cose siano andate poi così male. Il Monaco segna moltissimo, incassa molto, ha sculacciato il City di Guardiola e il Borussia. Corre al ritmo di Bolt, lo allena Jardim, un portoghese che ama il calcio-champagne. C’è un po’ di Italia e di campionato italiano (De Sanctis, Raggi, Glik), e c’è molto altro: Mbappé, classe 1998, il cui stile ricorda il repertorio di Henry, un Radamel Falcao resuscitato dai suoi crociati e dalle sue bende, Bernardo Silva, Lemar, Bakayoko, Sidibé, Mendy, Moutinho.

La Juventus è esperta, quadrata: ha tutto da perdere. Il Monaco è giovane, spensierato e talvolta scapestrato: non ha niente da perdere. L’equilibrio di Allegri (e non solo muro) contro la roulette di Jardim. Juventus 55%, Monaco 45%. A voi.