Come invidio il Barcellona

Roberto Beccantini10 marzo 2017

Come invidio il Barcellona. I due rigorini che, complice la codardia del Paris Sg, gli hanno consentito di entrare nella storia, sono stati sepolti sotto uno strato di enfasi che noi italiani non neghiamo a nessuno, soprattutto se straniero. Culé di tutto il mondo, beati voi.

All’umile scriba che entrò nel tunnel di Omar Sivori per non uscirne più, non toccherà la stessa sorte. A naso, non si parlerà dei panni che la Var avrebbe sciacquato nel suo tecnologico Arno: il rigore di Zapata su Dybala, la non simulazione di Deulofeu, il piede in fuorigioco di Bacca sul pareggio. A occhio, non si parlerà nemmeno del sangue freddo con il quale Dybala ha trasformato il penalty all’ora dei porno (una volta), e neppure delle parate di Donnarumma, migliore in campo per distacco, della traversa di Pjanic, della mira sbirula di Pjaca.

Si parlerà solo del mani-comio di De Sciglio, cinque giorni dopo quello di Samir. Al mediocre Massa, che all’andata suggerì a Rizzoli che il gol di Pjanic (regolare) era da annullare, l’ha suggerito Doveri.

Ai tifosi del Barcellona segnalo che era da tempo che non vedevo una Juventus così rotonda, così creativa, così sciupona. Vero, il Milan non muore mai, anche se allo Stadium ci è andato vicino un sacco di volte. Nell’ultimo quarto d’ora, fino al rosso di Sosa, il suo contropiede sembrava pronto a regalarci un revival del «Clamoroso al Cibali» di ciottiana memoria.

Mi sono piaciuti Dybala da una parte e Deulofeu dall’altra. Un solo difetto, lo spagnolo: vede troppo i compagni, e troppo poco la porta. Higuain ha lottato anche per Mandzukic, mentre Pjaca tende a «laudrupizzarsi»: fenomeno in allenamento, un po’ meno sotto porta.

Ricapitolando: culé del Barcellona, spiegatemelo voi: por qué?

Quando la storia…

Roberto Beccantini8 marzo 2017

Quando la storia si abbatte su di noi, testimoni minuscoli, con la forza iconoclasta di una rimonta che mai si era vista, almeno su questo pianeta, non resta che prenderne atto e alzarsi in piedi. Barcellona sei, Paris Saint-Germain uno. Rovesciato e polverizzato lo zero a quattro dell’andata, sul quale era stata posta la lapide della fine di un ciclo o, più semplicemente, di una fine.

Che poi il destino si sia servito, non già di omeriche giocate, ma di un autogollonzo e di un paio di tiepidi rigorini, è un discorso che non intacca la mostruosità dell’impresa. Piano piano, i principi del Parco sono diventati le maschere del Camp Nou, comiche in difesa, pallide in mezzo (Verratti, Rabiot) e con un Cavani troppo solo e comunque – lui, sì – autore in cerca di qualcosa, di qualcuno, non come gli altri, tutti a caccia di un segno, prigionieri di un sogno che li aveva ingessati.

Non ho visto il miglior Messi. Ho visto il miglior Neymar. Ho visto il collo livido del Paris, rovesciato su se stesso, e il cappio che Iniesta, Busquets e Rakitic gli avevano teso, senza soffocarlo. Poi, dall’88’ al 95’, l’inizio della fine del mondo: punizione di Neymar, penalty di Neymar, rasoiata di Sergi Roberto, all’ultimo giro dell’ultima roulette.

Unai Emery dovrà spiegarci l’esclusione di Di Maria. E Di Maria, lo sgorbio balistico sul 3-1. Di Luis Enrique, in compenso, ricordo il suo outing: a fine stagione lascio. In Italia ci saremmo masturbati mentalmente (non poteva aspettare, e adesso come reagirà la squadra?). Ma va a ciapà i ratt, dicono a Milano.

«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», scrisse Pier Paolo Pasolini detto «Stukas» per come «bombardava» di finte i terzini. «Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». E non era a Barcellona.

Quella testa di Ramos

Roberto Beccantini7 marzo 2017

E’ la normalità del calcio, un po’ leggera e un po’ ambigua, che d’improvviso recide i sogni come se fossero gambi di rose. Anche al San Paolo è andato in vantaggio il Napoli. Da Insigne a Hamsik a Mertens: il classico ricamo made in Sarri. Sembrava, il Real, un gatto pigro. Scocciato dal pressing di topini aggressivi e disciplinati. Il palo di Cristiano Ronaldo (quello, e stop) poteva far pensare a un avviso del destino, poi mitigato dal «paletto» di Mertens.

La Champions è terra di predatori. Spesso, non conta la qualità del gioco. Conta il fiuto dei bracconieri. Il Napoli aveva speso una vita, il Real invece l’aveva nascosta. E così, nel giro di sei minuti, sono bastate due sgrullate di Sergio Ramos, quello dei gol che pesano tonnellate. La seconda, complice Mertens.

Sergio Vamos: l’hombre del partido, l’uomo oltre le lavagne, anche se quasi sempre segna così come gli allenatori spiegano che segna (e raccomandano di impedirglielo). A uomo o a zona, marcarlo è una ghigliottina o rovescio: non è mai la sua testa, che rotola.

Nei panni di Sarri, avrei cominciato con Rog al posto di Allan. Dettagli. Insigne non era il solito pozzo di fantasia, Hamsik e Mertens lo sono stati per metà partita. La Bbc di Zidane non era in vena: capita. Non c’è stato bisogno che lo fosse: e questo rende ancora più cocente la delusione dei 60 mila.

Paga, il Napoli, le solite «fotte» difensive. Era difficile che il Napoli non segnasse almeno un gol, ma era ancora più difficile che non ne segnasse almeno uno il Real. Serviva un’impresa. All’andata il Napoli ebbe paura, questa sera si è preso un tempo. Non è bastato. Il Real di Zizou va a segno da 47 gare. La ciliegina di Morata è il bacio che gli dei riservano spesso ai loro cocchi. In totale, 6-2. Avevo detto Real 60% Napoli 40%. Il gentile Martin me lo ha garbatamente ricordato: grazie di cuore.