La solita minestra

Roberto Beccantini1 ottobre 2014

E’ stata una partita molta brutta e molta italiana, l’ha vinta la squadra che almeno ha tirato: uno per tempo, il primo parato, il secondo (di Arda Turan) no. La Juventus lascia il Calderon con il possesso palla (61% a 39%), per la libidine dei fusignanisti, sei ammoniti e il portiere avversario senza voto.

Per carità, lo zero a zero sembrava scolpito, ma gli episodi, si sa, non rispettano la dittatura dei numeri. In Italia, a parità di trama, Allegri ne sarebbe venuto a capo. In Europa è diverso. Simeone l’ha aspettato, soffocato, incartato. Mi hanno deluso i pezzi grossi, da Tevez e Llorente a Marchisio, Vidal e Pogba. Troppo imprecisi, nelle rifiniture.

Finalista dell’ultima Champions, l’Atletico ha perso Courtois, Filipe Luis e (soprattutto) Diego Costa, ma è sempre lì, una manica di operai indiavolati che, per la maglia, danno tutto. I paragoni tra Conte e Allegri si rincorrono maliziosi. I conti per ora tornano. Anche a livello europeo. Siamo sempre lì: la qualità, ammesso che sia poi così evidente, non riesce a uscire; e con la qualità, la personalità.

Non è una sconfitta che pregiudica il futuro, visto che, paradossalmente, la prima del gruppo è proprio la Juventus. E’ una sconfitta, se mai, che non allontana il passato. I ritmi avvolgenti ma lenti, suggeriti dal mister, possono spaventare un Milan, non certo un Atletico, che su difesa e contropiede ha costruito il suo regno, legnando addirittura il Real.

Se la Roma è squadra verticale, la Juventus sta diventando sempre più orizzontale. Manca, fu Conte a lanciare l’allarme, un Cuadrado, un Gervinho: gente capace, cioè, di sostituire le azioni alla mano tipo rugby, specialità della casa. I cambi di Allegri appartengono alle lotterie delle bocciofile. Pensierino della notte: a volte, non basta tenere la palla per essere coraggiosi.

Da squadra matura

Roberto Beccantini30 settembre 2014

Mi è piaciuta, la Roma di Garcia. Subito sotto – frittata di Maicon e rigore di Aguero – ha reagito alla grande. Traversa dello stesso Maicon, cucchiaio di Totti, occasioni sparse. Il Manchester City si è aggiuducato soltanto l’ultimo quarto d’ora, troppo poco per sedurre la dea delle mischie.

E’ finita, così, 1-1 come tra il City di Mancini e il Napoli di Mazzarri. Vero, gli sceicchi sono fermi agli ottavi dell’ultima edizione, ma la Roma era fuori da tre anni. E questa trasferta costituiva il primo, autentico, esame.

C’era curiosità, almeno da parte mia. Come c’è curiosità per la sfida che attende la Juventus. L’Atletico di Simeone non è un mazzo di assi, soprattutto ora che ha perso Diego Costa: rimane però, squadra fino al midollo. Con un’anima e un impianto che, spesso, lo portano al di là dei limiti. Prendere nota, please.

Garcia, lui, ha incartato Pellegrini: difesa compatta, palleggio raffinato e contropiede debordante, con la destra «storica» in evidenza (Maicon, Gervinho). Poi, ma solo poi, barricate. Premesso ciò, non ho capito le idee del mister cileno: formazione d’attacco e freno a mano tirato. Dopo il falso nueve, il falso coraggio.

Il gol di Totti, a 38 anni e tre giorni, ribadisce come la classe non abbia età, soprattutto a queste cadenze. Una squadra già grande avrebbe chiuso il match ben prima della tremarella finale. Una squadra che aspira a diventarlo, ed è già a buon punto, saprà lavorare sul «gap» che ancora le resta. Le assenze, da De Sanctis a Strootman, sono state mascherate dal fervore collettivo. Del City, mi ha deluso colui che ritengo il pistone cruciale: Yaya Touré. E’ da agosto che sbuffa come una pentola.

Teniamoci stretti questi segnali di arrosto. Dalla quarta fascia la Roma era precipitata nel girone di ferro. Ecco: proprio di coccio non mi sembra.

Occhio per occhio

Roberto Beccantini28 settembre 2014

Brutta settimana per chi ha scritto o parlato di «occhi». Ha cominciato Claudio Lotito, con la spregevole uscita sullo strabismo di Marotta; Lotito che fa coppia con Tavecchio e, insieme, fanno tanto Felpa e Louise. Poi è toccato a me, in risposta a un lettore. Occhio all’Inter, scrissi di mio pugno mentre mi facevo di niente. Morale: Inter uno Cagliari quattro. Non solo: tripletta di Albin Ekdal, 25 anni, svedese di scuola Juventus, improvviso tesoro dell’isola.

«Non abbiamo le palle», ha chiosato Mazzarri. Parole sante, anche se Mazzarri non è un tifoso: è l’allenatore. Occhio all’Inter. E a Zeman, ça va sans dire. Veniva da tre sconfitte, gioca sempre allo stesso modo. Frequenta gli eccessi. Offre emozioni a tutti: avversari compresi. Non avevo colto tracce del suo menu, in questi primi assaggi di campionato. L’espulsione, corretta, di Nagatomo ha spaccato l’ordalia, ma non è detto che in dieci si debba per forza perdere. Soprattutto se giochi in casa, hai appena pareggiato, ti chiami Inter e non hai di fronte Cristiano Ronaldo o Leo Messi.

Il 7-0 al Sassuolo e l’1-4 con il Cagliari decorano le pareti dell’ennesima pazzia. Già in avvio l’Inter era parsa molle e il Cagliari sul pezzo. Mazzarri rimpiange il turnover non fatto, ma siamo appena alla quinta o sbaglio? Il problema riguarda la personalità, ancora ballerina, della squadra (e sua, temo). Grave non aver capito la forza di Ibarbo. Fin dai tempi del Cellinismo duro e puro, il colombiano era capace di furibonde sgommate: avete presente lo strepitoso gol che firmò a Catania? Io sì. Zeman l’ha recuperato, non inventato; e l’Inter liberato.

Un anno fa, l’Inter aveva tredici punti, gli stessi della Juventus, due in meno della Roma capolista. Piano piano si sgonfiò. Mai, con Mazzarri, era stata umiliata così. Non so se sia tornata Zemanlandia: noi giornalisti siamo i primi a vivere di luoghi comuni. Addirittura più di lui, a volte.