Te Deam

Roberto Beccantini22 maggio 2024

Libiamo, libiamo ne’ lieti calici. L’Atalanta bergamasca calcio è campione di Europa League, competizione che non vincevamo dal 1999, con il Parma di Malesani, quando si chiamava ancora Coppa Uefa. E’ storia, non più cronaca. E’ la fine di un viaggio, è il sogno che ti sveglia e non tu che ti svegli dal sogno. Alla faccia del corto muso: 3-0 al Bayer Leverkusen fresco di storico «scudetto», il primo, e imbattuto da 51 partite. La famiglia Percassi, Gian Piero Gasperini: società e idee. Tante idee. Per esempio: Lookman. Voto 9. Non doveva giocare. L’ha risolta lui. Tripletta: al 12’, su cross di Zappacosta e dormitona di Palacios (non una gran mossa); al 26’, dopo essersi bevuto Xhaka; al 75’, in contropiede, su assist di Scamacca.

Tre punte: De Katelaere, Scamacca, Lookman. Coraggio. Pressing alto e un recupero palla che mandava fuori di testa gli avversari. E, quando serviva, un po’ di sane legnate, come certificano i quattro ammoniti. Così per un tempo. Le lezioni aiutano a crescere, se sei sveglio. All’Olimpico, l’ultima Juventus di Allegri le aveva strappato l’impatto. Stavolta, la Dea se l’è preso e vi ha costruito attorno il trionfo.

Xabi è parso sorpreso. Una palla-gol di Grimaldo, in bocca a Musso, e quel palleggio, che aveva mangiato la Roma, sgualcito da Koopmeiners, Ederson (8+) e Kolasinac. Uomo su uomo: in avanti, però, e senza «libero». Il pericolo era Wirtz, quel modo di deambulare per sottrarsi alle marcature degli stopper. Djimsiti, Hien e Kolasinac non ci sono cascati.

Alla distanza c’è stato un calo, e non poteva essere altrimenti. E’ bastato ricorrere a quell’elmetto e a quelle corazze che, per metà gara, erano stati esibiti nei rari casi d’emergenza. Le aspirine hanno inserito un attaccante in più, Boniface. Ma Ruggeri si moltiplicava su Frimpong e gli altri non mollavano una zolla.
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Grazie per quel gol

Roberto Beccantini21 maggio 2024

Gli dobbiamo tanto. In Nazionale, Karl-Heinz Schnellinger ha segnato solo una volta. «Quella». Era il 17 giugno 1970, stadio Azteca di Città del Messico, semifinale Italia-Germania. Noi avanti con Boninsegna già all’8’; loro a morderci, a spingerci, a prenderci a pallate. Poi, al 90’, ci fu un cross dalla sinistra, il destino entrò in spaccata e pareggiò. Il destino si chiamava Schnellinger. Senza il suo gol, dalla grigia cronaca di un corto muso non avremmo mai stappato i supplementari del mito, la partita del secolo. Tutto d’un fiato: mullerburgnichrivamullerrivera. E sempre tutto d’un fiato: italiagermaniaquattroatre.

Ci ha lasciato ieri, Karl-Heinz. Viveva a Milano e aveva 85 anni. Biondo come la birra, duro come l’acciaio, leale, terzino sinistro e libero, uno di quei tedeschi che hanno fatto del bene al nostro Paese anche quando gli hanno fatto del male.

Colonia, Roma, Mantova, ancora Roma e Milan, su dritta di Gipo Viani, per chiudere a Berlino. Prese parte alla finale mondiale del 1966 a Wembley, Inghilterra-Germania 4-2 dts, passata alla storia per la rete-fantasma di Hurst. Con il Milan di Rocco conquistò 1 scudetto, 3 Coppe Italia (più 1 con la Roma), 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa dei Campioni (4-1 all’Ajax di Cruijff), 1 Intercontinentale, nella sanguinosa tonnara dell’Estudiantes.

Lo chiamavano Panzer, naturalmente, ma anche Volkswagen e, alcuni giornalisti, addirittura Carlo Martello, per come affondava il tackle. Fu moderno per i suoi tempi, calciatore e non calciattore. Si italianizzò e, orso qual era, andò in letargo. Si apriva con gli amici, rubinetto di aneddoti.

A ogni amarcord messicano, sorrideva: «Un colpo di fortuna. Era finita, avevate vinto e volevo solo correre negli spogliatoi». Il caso volle che. Evviva il caso. Ed evviva Karl-Heinz, compagno di un lungo viaggio e di una lunghissima notte.

Caro amico mi arrendo

Roberto Beccantini20 maggio 2024

Sul 3-0, con il Bologna dominante e Madama a reggergli lo strascico, avevo pensato a questo titolo: «Calafiori e calabrache». Per l’avvio ventre a terra del dottor Balanzone; per il gol del difensore e il raddoppio di Castro nel giro di 10’, suggellati, in avvio di ripresa, dallo scavetto di Riccardo cuor di leone, un terzino sparato al centro della difesa. E per il cosiddetto contesto: calcio contro calci; pressing contro cipria. Una sola squadra al comando e l’altra sazia (zona Champions, Coppa Italia), stordita, inguardabile.

Era la prima di un dopo. Da una parte, il celofuturista Thiago Motta, di trasloco (così dicono). Dall’altra, il celodurista Montero, di traghetto. Con Giuntoli e la sua Camelot, in tribuna, per nulla allegri. Ma allora perché 3-3?

Perché il calcio è pazzo, luogo comune (forse). Perché Thiago ha tolto i migliori (da Calaccetera a Freuler) e Paolo il caldo i peggiori (fra i quali Vlahovic, l’eroe dell’Olimpico). Perché la Dotta, priva di Ferguson e Zirkzee, non poteva immaginare che; e la Vecchia bene immaginava cosa. Fatto sta che, sotto la pioggia del Dall’Ara, Chiesa profittava di un errore di Lucumi – così come, in precedenza, i sodali del colombiano avevano banchettato sulle altrui licenze e indecenze – e infilava di sinistro; Milik segnava su punizione, complice la schiena di Fabbian; Yildiz, assatanato, stangava di destro. Il tutto, in otto minuti, dal 76’ all’84’. E ancora Chiesa, quasi quasi…

Note a margine: è tornato Fagioli, dopo i sette mesi di squalifica. Thiago e Montero si sono abbracciati a lungo. «Caro amico ti scrivo» a palla, la musica della Champions, i fuochi d’artificio, lo stadio discoteca e non più salotto, la gioia per una stagione indimenticabile. E una notte che si accomoda in archivio sull’onda di episodi ed emozioni che l’hanno stravolta. Caro amico mi arrendo.