Gaetano

Roberto Beccantini3 settembre 2014

Gaetano. Gaetano Scirea. Oggi avrebbe 61 anni. Ne sono passati venticinque da quando non tornò dalla Polonia. Ci manca tanto, perché siamo cambiati troppo: noi, il mondo, il suo mondo. In questi casi, si rischia sempre di cadere nel patetico. Nel suo, sarebbe imperdonabile non correrlo, il rischio.

Raccontare ai giovani chi era e cosa ha rappresentato, è facile. Basta prendere i calciatori della generazione borotalco – non tutti, ma quasi – e liberarli dal grottesco ciarpame che li ha ridotti a guardie del corpo di se stessi.

Atalanta, Juventus, Nazionale: mai espulso, mai squalificato. E giocava battitore libero, mica all’attacco. Accennerei poi ai suoi silenzi e alla sua lealtà. La tv non aveva ancora invaso il calcio, d’accordo, ma già allora esistevano gli svitati e i teatranti. Solo che c’era spazio anche per gli Scirea.

Un modo, non una moda. Questo era Gaetano. La differenza non è nella vocale: è la vocazione. Testa alta, un naso che sarebbe piaciuto a Conte (Paolo), anche se non proprio triste come una salita, il gesto preferito al comizio. Era fatto così. Timido, riflessivo, non portato al pulpito. Un mito che, spente le luci, tornava un mite.

Non me lo vedo che twitta o selfieggia. Spesso, abbiamo considerato grigia la sua serietà, e banale la sua normalità. Passava per il simbolo del calcio difensivo. Affinché i ragazzi non ne restino traviati, riassumo l’azione che portò all’urlo di Tardelli nella finale del Bernabeu: Scirea recupera palla e avanza dai bordi della sua area. Passa a Conti, borseggiato da Rossi. Palla a Scirea, ancora in area, sì, ma quella tedesca. Di tacco a Bergomi, da Bergomi a Scirea, di tocco a Tardelli. Serve altro?

«You may say I’m a dreamer/But I’m not the only one»: e invece ho paura di sì, Gaetano. Eri solo. Eri libero.

Il premio Corazzata Potemkin

Roberto Beccantini2 settembre 2014

Ogni commissario tecnico denuncia l’invasione straniera. L’ultimo è stato Antonio Conte. Il penultimo era stato Cesare Prandelli. Tra i fustigatori televisivi, mi hanno riferito che si è schierato anche Gianluca Vialli, su Sky. Quando allenava il Chelsea, fu il primo manager a schierare una formazione con zero inglesi in campionato. Contro il Southampton, il 26 dicembre 1999 (da «Blu reale» di Vincenzo Felici). Il gioco (e il giocatore) delle parti: un classico.

Coraggio pure. Penso che ormai sia tardi per tornare indietro. Premesso che sono contro ogni forma di proibizionismo o protezionismo, si possono porre paletti agli extracomunitari. Non molto altro. La sentenza Bosman del 15 dicembre 1995 ha cambiato il mondo. Si è passati dalla dittatura dei club al potere, quasi assoluto, dei procuratori. E occhio ai fondi di investimento e a chi c’è dietro: è una peste subdola, perché sul momento porta denaro e, dunque, non puzza.

L’uscita di Conte mi ha fatto sorridere. A noi italiani, dopo aver dichiarato lo stato di crisi, piace annunciare di aver scoperto l’America: ma dalla parte di Cristoforo (gli allenatori di club), giammai da quella dei nativi (i selezionatori).

A mercato chiuso, finalmente!, nessun dubbio che il premio «Corazzata Potemkin» vada al prestito di Falcao alla Juventus: esiste una boiata più pazzesca di questa? In compenso, sono rimasti Cuadrado, Pogba e Vidal. Ne sono felice. Neppure io scopro l’America se scrivo che oggi, al mondo, ci sono sette sorelle dalle rose transnazionali. In ordine sparso: Real Madrid, Barcellona, Bayern, Manchester City e United, Chelsea, Paris Saint-Germain. Quando decidono di muoversi, si muovono: Bale, James Rodriguez. Anche fra loro: Di Maria dal Real allo United. Con Cuadrado, Pogba e Vidal hanno deciso che non era il momento. Grazie.

Contropiede e tutto il resto, noia

Roberto Beccantini31 agosto 2014

Le milanesi. Dico la verità: come gioco, meglio la Lazio del Milan. Pioli tiri dritto, e ricordi ai suoi che a calcio bisogna tirare (appunto). Il possesso palla, i triangoli, il baricentro alto (?) servono a poco, se l’impotenza sotto porta si aggiunge a tare difensive di natura colposa.

In attesa di Torres Gump, Inzaghi ha servito il menu del trofeo Tim. Reparti serrati e contropiede. El Shaarawy nel primo tempo per il gol di Honda, Abate nel secondo per il gol di Muntari. Il Faraone scalpita, e questo mi gonfia il cuore. Il Milan si è aggrappato più allo spirito che alla manovra, e nell’ultima mezz’ora non è uscito dall’area. Per adesso, comandano i mediani: De Jong, Muntari. A Coverciano avrebbero chiosato così: partita invero orientata dagli episodi e non già da segmenti di gioco organico.

Al di là del rigore-fantasma, e comunque parato, mi aspettavo di più dall’Inter. Non credo che sia un problema di formula: se una o due punte (meglio due, con Palacio od Osvaldo); se Hernanes e/o Kovacic; se due incontristi o uno solo, alludo a M’Vila e Medel. Prenderà anche pochi gol, Mazzarri, ma per farne bisogna osare di più. Cosa che ha fatto solo dopo l’ingresso di Osvaldo.

Il Toro ha perso i 22 gol di Immobile e i 13 di Cerci: 35 in tutto. Fate un po’ voi. Ventura è un artigiano di vena pronta. Bene Quagliarella nelle vesti di «boa» nobile, straordinario Gazzi nel vivo della giungla, e pure Glik nel kamasutra d’area. Nocerino, viceversa, sembra ancora prigioniero dei 10 gol che Ibrahimovic gli fece fare al Milan. I muri alzati davanti ai portieri e gli ingorghi di metà campo hanno prodotto periodi di noia mortale.

Guai a prendere per oro colato il pre-campionato: il peggiore dell’Inter a Torino è stato il migliore dell’Inter negli Usa, Dodò.