Apologia di beato

Roberto Beccantini20 maggio 2014

L’importante è che sia finita, anche se non ne sono proprio sicuro. In pratica, stiamo celebrando una non-notizia, Antonio Conte resta alla Juventus fino al 30 giugno 2015 come da contratto sottoscritto da un pezzo (di carta e di tempo): appunto, dov’è la notizia?

Il popolo, magari non tutto ma una buona fetta, ha avuto quello che voleva. E questo è un fatto. Andrea Agnelli e Conte, non so. Leggo che era stato allertato Sinisa Mihajlovic. Mi sono risparmiato la solita lagna della prima domanda a Vinovo: quanti scudetti ha vinto la Juventus? Ho letto pure di offerte estero su estero per Antonio. Non mi risultano, ma può darsi che sia io in difetto.

I progetti a breve termine sono pericolosi, anche per chi conosce l’ambiente e ha contribuito a tirarlo fuori dal guano. Conte non intendeva dimettersi, Agnelli non intendeva pagare (almeno per una stagione) due allenatori.

Rimane il nodo del mercato, degli obiettivi, di come coniugare, finalmente, la caccia domestica con i safari europei. E’ questa la sfida che mi piacerebbe che Antonio lanciasse a se stesso e al calcio: migliorare, migliorandosi; migliorando, migliorarsi. Non è solo un gioco di parole. C’entra anche il gioco, per esempio.

I confini sono facilmente leggibili: da una parte, i Bayern e i Real; dall’altra, i modelli Atletico e Borussia Dortmund. In mezzo, c’è spazio per molto, forse per molti. Adesso che la pancia è tornata piena, con i tre scudetti e i 102 punti, si può serenamente riesumare dal cassetto quel vecchio slogan di Marcello Lippi: per vincere qualcosa, bisogna cercare di vincere tutto. Dolce o salata che sia stata la «svoltina», mi auguro che Agnelli e Conte siano con-vinti di quello che hanno fatto, e non banalmente vinti da quello che la piazza voleva che facessero.

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Adesso che

Roberto Beccantini18 maggio 2014

Adesso che il 3-0 al Cagliari ha sancito un record che potrà essere soltanto eguagliato (19 vittorie in casa su 19) e un altro che potrà essere superato sì, ma non so quando e non so come (102 punti, cinque in più dell’Inter di Roberto Mancini).

Adesso che tutti gli aggettivi sono stati saccheggiati: straordinario, fantastico, meraviglioso.

Adesso che è terminata la terza stagione dell’era Conte con il terzo scudetto consecutivo.

Adesso che va in vacanza il «dibattitone» su quanta Europa sia costata la rincorsa forsennata al titolo, sforzo al quale ha contribuito la fiammeggiante resistenza della Roma. Se sia stata una scelta pigra o lungimirante.

Adesso che scendono dal carro, per un giorno?, le discussioni sul modulo e sul campionato «poco allenante».

Adesso che Conte ha scelto di restare per eccesso di domande (del popolo) e difetto di offerte.

Adesso che dal Camp Nou, come segnalavano i lettori più pacati, ci è arrivata l’ennesima lezione di sportività: i tifosi culè, tutti ad applaudire l’Atletico campione di Spagna sulle ceneri, caldissime, del Barcellona.

Adesso che Diego Simeone, sulla scia di Jurgen Klopp e il suo Borussia Dortmund, ha ribadito quanto il fatturato sia cruciale ma non così tirannico come si ostinano a scrivere i cultori de «il calcio è dei ricchi» (chiedo scusa, ma quando mai è stato dei poveri?).

Adesso che i giochi (e i record) sono fatti, vi ricordo cosa scrissi il 20 ottobre 2013, in coda a Fiorentina-Juventus 4-2: «Non è più lei (riferita alla Juventus), non è più lui (riferito a Buffon)».

Era il minimo.

Il portiere di Siviglia

Roberto Beccantini15 maggio 2014

Al di là del «fado» e della nazionalità del portiere di Siviglia (Beto, portoghese), il gioco e il livello dei protagonisti hanno confermato quanto la finale torinese di Europa League fosse alla portata della Juventus. Come il Benfica, la squadra di Conte veniva dalla Champions, che resta lo spartiacque di tutto: dal bilancio della società alle ambizioni dell’allenatore.

Può darsi che la fissa del terzo scudetto (averne, di queste manie) e il «recordismo», nobile ma insidiosa malattia sulla quale tornerò, abbiano «distratto» Conte. La maledizione di Bela Guttmann resta troppo suggestiva e disponibile per non applicarla all’ottava finale persa dal Benfica. Mi permetto di aggiungervi, in generale, la cronica assenza di un vero e proprio cannoniere (c’era una volta Eusebio; e Cristiano Ronaldo batte altri sentieri) e, nel caso specifico, le squalifiche di Markovic, Salvio, Perez e il k.o. di Sulejmani.

«Frizzantina, no?», chiosa Matteo, lettore paziente e paziente lettore. Sì, abbastanza: da sei e mezzo. Non un epilogo memorabile, ma nemmeno uno sbadiglio eterno come Psv Eindhoven-Benfica e Marsiglia-Stella Rossa, roba di un secolo (e una Coppa dei Campioni) fa. Mi ha deluso Bacca, mi è piaciuto Rakitic, si è confermato Garay. Non conoscevo Vitolo: lampi di dribbling.

A proposito di campionati poco allenanti. Il Siviglia è quinto nella Liga. E il Benfica è pur sempre la locomotiva di quel Portogallo che nel 2011, con Porto-Sporting Braga, si annesse la cima di Europa League. Tornando alla Spagna: senza scomodare il Barcellona del tiki taka, la prossima finale di Champions sarà il derby di Madrid. Noi non vinciamo l’Europa League dal 1999 (Parma), quando ancora si chiamava Coppa Uefa. Arriba Espana: dal 2000 in poi, Valencia, tre volte Siviglia e due volte Atletico. Non proprio una coincidenza, in fin dei Conte.